-
Voto
Ricorda Anna, almeno inizialmente, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Alessandro Celli, presentato a Venezia come unico film italiano nella 36. edizione della “Settimana della Critica”. Si intitola Mondocane e fa venire in mente Anna perché con la recente serie di Niccolò Ammaniti, tratta dal romanzo dello stesso autore, l’opera prima del regista romano, già autore di cortometraggi premiati e di esperienze televisive interessanti come la serie Jams o la bella docufiction Giorgio Ambrosoli – il prezzo del coraggio, condivide lo spazio scenico di un futuro degradato e fallimentare, di cui é paziente grave un meridione italiano abitato da bambini e adolescenti allo sbando. Costretti dalla miseria ad affrontare un’avventura dolorosa, col loro impasto di paura, solitudine, speranza e coraggio.
In Anna, dove non c’erano adulti, era una Sicilia dilaniata da una pandemia, sporca e distrutta anche se visivamente ancora luminosa: qui è una Puglia anche lei assolata, calda, almeno in certi esterni, in certi scorci, in certi tramonti accesi, ma circoscritta al perimetro di Taranto, e già così, quindi, il paesaggio si fa meno astratto, più preciso, minuto e ribollente, centrale, significativo e attivo per le vicissitudini e le esperienze dei protagonisti. Che sono due ragazzini sopravvissuti a un disastro non causato da un’epidemia – altra differenza con la serie – ma dagli effetti di quell’acciaieria della città che da decenni mescola drammaticamente vita e morte. Si chiamano Pietro e Christian, sono orfani, inseparabili, svegli e vivi grazie – un grazie pagato a caro prezzo – a un padrigno padrone che nella dissolutezza generale, nella malsanità di un contesto dove di un crocifisso non viene più compreso nemmeno il significato, ha mescolato anch’egli bene e male: ha insegnato ai due fanciulli a nuotare, pescare, ma anche fatto loro cose orribili – dice Christian – e li ha cresciuti come schiavi, allineato alla ruggine e all’abbandono della favela.
Quello che è accaduto nella Taranto distopica del film, lo spiega un altro discutibile maestro, un altro padre potenziale e controverso, fallito o quantomeno ambiguo, coi suoi barlumi di affettuosità associati ad atti barbari in nome della ribellione armata. Lo chiamano Testacalda e lo interpreta, con uno strano accento neutro, non pugliese (mentre tutti, attorno, parlano con accento locale) Alessandro Borghi. È il capo di un gruppo criminale denominato le “formiche”: «Io ero bambino quando vi fu la grande evacuazione – spiega a un certo punto Testacalda – in una settimana hanno cacciato via la gente e hanno chiuso Taranto. L’acciaieria faceva morire le persone ma l’acciaio non si poteva toccare. Le persone invece si». Alcuni, però, i più disgraziati, i poveri, sono rimasti nella città vecchia, ormai lugubre, cadente, mentre gli altri sono andati in quella nuova, asettica e pulita, ordinata ma fredda, aliena. Qualcuno, negli antichi quartieri ridotti a rovine, ha pure iniziato a lottare, ed ora è pronto a fare la guerra con l’ideale di bonificare quella terra, di riportarla a come era prima. Anzi meglio. «Per questo ci servono i soldi che ci prendiamo – continua il capo delle formiche – per riprenderci quello che ci hanno portato via».. Pietro e Christian finiscono presto nel gruppo e prendono i nomi di Mondocane e Pisciasotto.
Testacalda li osserva, li studia, li mette alla prova, fa le sue scelte e cerca di dividerli, ma il loro sogno di sentirsi vivi e forti, liberi e felici, la loro voglia di affermarsi incontra il sentimento profondo della loro amicizia, e questa umana resistenza, questo vitale legame in quella terra del nulla, all’inizio conflittuale ma poi istintivamente superiore alla violenza che c’è intorno, è il cortocircuito attraverso il quale il film cerca la sua strada e la sua intensità espressiva oltre il paesaggio sullo sfondo, oltre l’elaborata e affascinante cornice. Ma tutto quello che accade, sparatorie, separazioni, prese di coscienza, perdite, spiegazioni, conflitti, scelte dolorose e percorsi di formazione, non fanno degli interessanti e abbondanti ingredienti di Mondocane una pietanza corposa, davvero originale, un’opera compatta, dalla sorprendente identità. I personaggi non brillano per complessità, né per capacità di emozionare. Il politico si confonde col post apocalittico fino a smarrirsi, alla lunga, dentro gli altri temi universali messi a cuocere nel pentolone da cui non salta fuori nessun sapore dominante. Fatto salvo per una buona, godibile, limpida qualità visiva della fotografia.
Nelle sale dal 3 settembre
Mondocane – Regia: Alessandro Celli; Sceneggiatura: Alessandro Celli, Antonio Leotti; Fotografia: Giuseppe Maio, Montaggio: Clelio Benevento; Interpreti: Giuliano Soprano, Dennis Protopapa, Alessandro Borghi, Barbara Ronchi, Ludovica Nasti; Produzione: Matteo Rovere (Groenlandia), Gianluca Curti (Minerva pictures) con Rai cinema; Distribuzione: 01 Distribution.
