Orlando (in una intensa interpretazione di Michele Placido) è un burbero della sabina laziale che alle feste di paese suona la fisarmonica, al bar beve cicchetti uno via l’altro, fuma come un turco e si abbatte sul divano tornando di notte a casa brillo. Alle sei di ogni mattina, però, si sveglia e senza neppure lavarsi il viso va a nutrire le bestie, a dare l’acqua alle verdure in crescita nell’orto, a prendersi cura della sua fetta di terreno agricolo. È un uomo solo che non patisce la solitudine. Fino all’arrivo di una telefonata internazionale che cambia tutto il piccolo ordine della sua vita in provincia.
Daniele Vicari racconta la precarietà di chi espatria all’estero perché si sente stretto tra le montagne sperdute di un remoto paese del centro Italia: la generazione dei vecchi è attaccata alla tradizione, all’anima del paesaggio, alla vita semplice; la generazione più giovane, dei figli, fa fatica a trovare il proprio posto nel mondo e ha bisogno di mettere la testa fuori, conoscere il resto che sta oltre l’orizzonte, perdersi nelle nebbie di una città al di là dei confini e magari riuscire ogni mese ad alzare solo la cifra necessaria a una stentata sopravvivenza quotidiana. Quando Orlando arriva a Bruxelles suo figlio Valerio è già morto, non si specifica come: attraverso una osservazione attaccata al viso espressivo del protagonista il regista racconta lo spaesamento di un uomo che quasi certamente non ha mai lasciato la sua terra, non conosce le lingue e le regole di un paese assai più formale di quello da cui viene (“si è comportato bene, nonostante la sua provenienza” lo provoca scherzosamente l’assistente sociale). In terra straniera Orlando trova una deliziosa “monella” (come la descrive lui durante la telefonata al paese), una dodicenne dai capelli biondi lunghissimi e la pelle diafana che parla perfettamente l’italiano (e anche il francese), che senza ombra di dubbio è sua nipote. La evoluzione del rapporto tra i due è lentissima: le differenze saltano agli occhi e si scontrano su ogni piano, pratico, emotivo, comunicativo: il vecchio non è abituato a prendersi cura di esseri animati che non siano animali, è chiuso in sé stesso, a stento replica alle domande (“se ti faccio una domanda devi rispondermi” lo esorta più volte la ragazza), prende iniziativa solo dopo molteplici esortazioni, letterali o della vita stessa.
Più volte la ragazzina tiene testa al carattere minaccioso, prepotente, introverso del nonno: vince la battaglia di essere portata via dalla sua città, più lucida dell’anziano nel non voler variare la sua stabilità costante di giovane studentessa in crescita. “Ma dove sta la madre?” prova all’inizio a domandare Orlando a Michele (Fabrizio Rongione, attore che si incontra nei film dei fratelli Dardenne), l’assistente sociale mezzo italiano con cui si instaura una simpatia: “La madre di Lisa non è registrata neppure sull’atto di nascita, non ha riconosciuto la bambina”. “Ma che madre è” esclama il vecchio sbalordito, non avendo mai sentito una cosa del genere nell’arco della sua intera esistenza.
Angelica Kazankova, co-protagonista del film insieme al navigato attore settantaseienne, sorprende in quanto a naturalezza davanti alla macchina da presa, scioltezza a passare da un registro all’altro, piena di talenti tra cui il pattinaggio artistico su ghiaccio di cui lo spettatore assiste a più di una magica acrobazia.
In sala dal 1 dicembre
Orlando – Regia: Daniele Vicari; sceneggiatura: Daniele Vicari, Andrea Cedrola; fotografia: Gherardo Gossi; montaggio: Benni Atria; musica: Teho Teardo; interpreti: Michele Placido, Angelica Kazankova, Fabrizio Rongione, Daniela Giordano, Federico Pacifici, Christelle Cornil, Anis Gharbi; produzione: Rosamont, Tarantula Belgique; origine: Italia, Belgio, 2022; durata: 122’; distribuzione: Europictures.