43° Torino Film Festival (21-29 novembre 2025): I, The Song di Dechen Rode (Fuori Concorso)

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Con I, The Song siamo spettatori di una storia quasi fantasmagorica per la quale la regista bhutanese Dechen Roder intreccia una trama di identità false, mista a desideri austeri in Bhutan, il piccolo stato dell’Asia meridionale nella catena himalayana.

La timida e pacata maestra Nima (Tandin Bidha) viene licenziata senza tanti convenevoli dal suo datore di lavoro dopo che le autorità hanno scoperto un breve video porno non consensuale (chiamato “video blu” per via della sua illuminazione) in circolazione su “WeChat”, dove la protagonista sembra essere proprio Nina. Date le circostanze, la ragazza sceglie prontamente di chiarire la questione e scopre che il video ritrae un’altra donna di nome Meto (interpretata sempre da Bidha), con la quale ha una stranissima somiglianza (tranne per il fatto che, a differenza di Nima, Meto ha i capelli corti, porta la frangia e ha un piccolo neo sotto l’occhio destro).

                                  Tandin Bidha

Nima decide di trovare la sua “sosia” e riabilitare dunque la sua reputazione. Ma presto la sua ricerca diventa sempre più esistenziale e intima, portando a storie parallele legate alla scomparsa di Meto. Quando Nima incontra per la prima volta l’ex fidanzato della sosia, Tandin (Jimmy Wangyal), chitarrista e cantante, si ritrova in un bar locale tutto illuminato al neon. Tandin, con i capelli lunghi e i tatuaggi, la voce roca di una rock star, ha un’espressione perennemente accigliata sul volto: comprensibilmente, Nima è allo stesso tempo scoraggiata e stranamente incuriosita dalla sua personalità che appare un po’ inquieta. L’incontro con Chuni (Sonam Lhamo), un’amica di Meto, con l’imprenditore Phuntsho (Tshering Dorji) che la ha assunta, e con la famiglia di Meto, porta a un’ulteriore “combinazione” relativa all’identità di Nima, che la regista usa per confondere un po’ le acque allo spettatore e aprire a una prospettiva di taglio più mitologico. Nima è solo un’altra “figura” di Meto, un fantasma o una sua metamorfosi? O forse entrambe non sono altro che un’anima divisa in due?

Ogni scena “straripa” di una graduale ricchezza visiva. Roder non ha paura di adottare un approccio fortemente stilizzato, oscillando tra il “mondo esterno” luminoso e quasi abbagliante e il “mondo interno” oscuro e nebbioso in cui Nima si ritrova, ovvero un ambiente reso ancora più particolare da un intenso design delle luci. Guardare il “video blu” trasporta letteralmente Nima in questo nuovo universo in cui s’immerge completamente, fino a tingersi tutta di blu quando Roder utilizza luci colorate estremamente intense per illuminare gli interni. Sebbene la realtà a volte sembri sottomettersi all’incomprensibile, la lenta corrente sotterranea di elementi che appaiono magici del film non diventa mai statica. Questo elemento è davvero un bel dono, anche perché così l’opera non si abbandona mai ai molti cliché esotici che comunemente circondano un paese come il Bhutan.

C’è anche, però, qualcosa di intensamente onirico che permea il film, e ciò permette allo spettatore di chiedersi se tra le due non ci sia un legame antico che le unisce. Si rintracciano atmosfere simili a quelle dei film di Wong Kar-Wai, anche se la regista ha espressamente dichiarato che a ispirarla è stato soprattutto il bellissimo La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique, 1991) di Kieślowski. Roder non dimentica la bellezza del suo paese, offrendo scorci tipici del verde paesaggio e concedendo alla sua storia canzoni caratteristiche eseguite da Tandin, Meto, Nima e altri. Le immagini inoltre vengono accompagnate da musica sperimentale, tenue e ambientale, composta da corde intensamente “pizzicate” e suoni indefinibili che alimentano la dimensione onirica. Pur rimanendo nell’ambito del dramma psicologico e quasi misterico, il film culmina con un messaggio profondamente universale riguardo la solidarietà femminile. Nima, inizialmente, è sgomenta che un documento come il “video blu” possa mai rappresentarla. Ma poi la sua ricerca la porta in prossimità di nuovi luoghi emotivi relativi all’identità che invadono così la sua personalità al punto da condurla verso consapevolezze e prospettive di vita del tutto impreviste.

“Il Bhutan – afferma la regista – è entrato nella modernità negli anni ’60. Prima di allora non c’erano strade, né un’istruzione istituzionale. Mia madre ha camminato per dodici giorni attraverso il Bhutan per raggiungere il confine e andare a scuola in India. Nel 1989 è stato girato il nostro primo lungometraggio, e nel 1999 Internet e la TV hanno iniziato a diffondersi ​​nel paese. Per molti versi abbiamo saltato qualche passo, facendo enormi balzi. Siamo passati direttamente da una forte cultura orale a una cultura visiva fatta di TV, film e media digitali. Non ci siamo fermati a riflettere. La nostra cultura orale oggi svanisce, andando incontro a una morte silenziosa e innominabile. Durante l’infanzia di mia madre, era la principale forma di narrazione, ed era dinamica, ricca e informava lei e la sua generazione sull’identità, il loro mondo, la loro cultura e ciò che è importante. Oggi, come in tutto il mondo moderno, siamo confusi. È possibile fermarsi in questa frenesia moderna, prendersi un momento per riflettere sulla sacralità, la cultura, l’originalità, il significato e ciò che è importante?”. Leggendo questi ricordi-testimonianze e di fronte alla domanda posta, chissà perché riemergono alla mente (di chi scrive) le immagini di Keep Cool (1997) di Zhang Yimou che provava, a suo modo con quel film, a rispondere anche alla questione rivolgendola alle usanze culturali della sua amata Cina. Anche i film (e il cinema tutto) fanno dei giri strani, e “non ci resta che andare in sala”!


I, The Song – Regia: Dechen Roder; sceneggiatura: Dechen Roder; fotografia: Rangoli Agarwal; montaggio: Noémie Azul Loeve, Dechen Roder; scenografia: Kunzang Wangmo; costumi: Kunzang Wangmo; musica: Tashi Dorji; interpreti: Tandin Bidha (Nima/Meto), Jimmie Wangyal (Tandin), Tshering Dorji (l’imprenditore Phuntsho), Sonam Lhamo (Chuni), Dorji Wangdi; produttori: Dechen Roder, Johann Chapelan, Fernanda Rennó, Stefano Centini, Paolo Maria Spina; coproduttore: Luke Healy; produzione: Dakinny Production, Girelle Production, Fidalgo, Volos Films, Revolver, con il contributo del Ministero della Cultura, con il sostegno di Samuh, CNC Aide aux Cinéma du Monde, SorFond, Vision Sud-Est, World Cinema Fund, Asian Pacific Films Awards, Ciclic; origine: Bhutan/ Francia/ Norvegia/ Italia/Taiwan, 2024; durata: 112 minuti; distribuzione: Revolver.

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