43° Torino Film Festival (21-29 novembre 2025): Je n’avais que le néant – Shoah par Lanzmann di Guillaume Ribot (Concorso documentari)

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Je n’avais que le néant – Shoah par Lanzmann è qualcosa di più di un possibile making off che l’autore Guillaume Ribot ha ricostruito a partire da 220 ore di girato non utilizzate dal regista francese per Shoah, quella che è considerata l’opera cinematografica più assoluta, più radicale, più abissale ad aver impresso e conservato per sempre l’immagine del  “sole nero”, come lo ha definito Lanzmann, dell’Olocausto. Il fluviale documentario proiettato per la prima volta nel 1985, aveva una durata di oltre nove ore e mezzo, necessarie per permettere alla sua densa, fitta visione di dispiegarsi e manifestarsi tra i silenzi e le sospensioni senza fiato del non dicibile e del non rappresentabile.

Le voci, i volti e i corpi chiamati in causa erano quelli degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, che nella relativa distanza temporale degli anni ‘70/ ’80, potevano iniziare ad aprirsi ad un processo di elaborazione e di restituzione attraverso il confronto e la parola di quel devastante, incancrenito, cristallizzato trauma; assieme a loro, in un contrappunto che si stratifica e si cementa nelle cause e nelle conseguenze del genocidio, apparivano gli ex SS riciclatisi nel profilo medio della borghesia tedesca, nella prepotente pretesa di un ridimensionamento delle loro azioni e delle annesse responsabilità, e soprattutto, quei polacchi che avevano vissuto nelle zone liminali la presenza delle camere a gas e delle ciminiere fumanti e che avevano visto passare, tra una strumentale indifferenza e una malcelata ignavia (quando non proprio una dichiarata ostilità), i treni carichi di esseri umani per le destinazioni e le soluzioni finali di Treblinka, Sobibor, Auschwitz o Birkenau.

Ribot non cerca però solo nei ritagli di un materiale ancora tanto vibrante e ricco di prospettive una possibile esemplificazione del metodo Lanzmann messo fronte alla realizzazione di un’impresa così vasta per quantità e per complessità di elementi e di suggestioni, di informazioni e di riflessioni. Cerca di far emergere le ragioni e i sentimenti profondi  che hanno tenuto vive la dedizione e la tenacia nel voler raccontate questa immersione nella notte più oscura dell’umanità, un viaggio legato a doppio filo tanto con la sua etica dimensione di essere umano , di militante politico,  di intellettuale, quanto con la sua identità di ebreo francese. E forse partendo dalla traccia di quel titolo iniziale, Il luogo e la parola, al quale poi Lanzmann ha preferito l’etimologia intraducibile di Shoah (per indicare la portata spaventosa di un avvenimento non definibile da nessun significante e non comprensibile da nessun significato), Ribot ne ha recuperato appunto “la parole”, ovvero  i diari, le note, gli appunti preparatori durante  gli spostamenti compiuti tra gli Stati Uniti, Israele e la Polonia, a partire dal 1974, e ne ha fatto la voce narrante.  Quello che ascoltiamo, però, non è la cronaca di un piano di lavorazione, nonostante venga posta la questione essenziale del reperimento dei fondi a lungo termine;  si tratta più che altro della struggente confessione di un dubbio, di un’impotenza, di una contraddizione tra la spinta a voler guardare fin dentro l’antro più terminale delle stanze dove veniva praticata sistematicamente la morte  e il trovarsi davanti quel vuoto  creatosi, matericamente e simbolicamente, dopo la chiusura e la dismissione dei campi; una metafora dell’oblio che trova il suo corrispondente nella sequenza d’apertura nella quale Lanzmann, con gli occhi spalancati di spaesamento e di commozione, attraversa in macchina un sentiero che sembra condurlo da nessuna parte, il falso movimento di una ricerca che invece partiva dall’intuizione più corretta.

L’importanza e l’originalità  di questo documento postumo (Lanzmann è morto nel 2018 e non ha mai incontrato Ribot) sta allora nel creare una connessione o, più poeticamente, una risonanza tra il recupero di una coscienza e di una consapevolezza  (“Sapevo solo che erano morti 6 milioni di noi”) e il suo imprimersi, nella corrispondenza o nella dissonanza, sulle testimonianze raccolte, registrate, filmate. La comprensione di quanto ogni immagine, ogni scelta di montaggio, ogni parola pronunciata in Shoah, abbia richiesto a Claude avant Lanzmann  l’attraversamento, nella totalità della propria condizione emotiva, psicologica e fisica, di quella zona, tolta dall’asettico svuotamento di un formale (dis) interesse e restituita alla pienezza di un campo, quello dello sguardo, che vi proietta sopra l’evocazione della più gigantesca mattanza di massa mai compiuta. Gli occhi dei testimoni, di coloro i quali hanno visto direttamente l’orrore, si riflettono non più solo nella macchina da presa, vertoviana protesi meccanica dello sguardo immerso nella realtà, ma in quelli, colti nella flagranza di una carnale presenza sul campo, dello stesso Lanzmann. Ripreso quasi sempre dalla sua troupe, stabilisce, attraverso il contatto visivo e la vicinanza del suo volto con quello degli intervistati, una sorta di osmosi mnemonica che gli permette di varcare la soglia della rappresentabilità, mantenendo la misura di un pudore e di un rigore. Il significato della sequenza della locomotiva, noleggiata per riprodurre l’arrivo dei deportati a Treblinka e guidata da un vero ex macchinista polacco, Gawkowski, viene espanso nella perturbante potenza espressiva di un’ allucinazione, per la quale l’atto di rimettere su quel binario, e in movimento, quel mezzo, troncato nella completezza della sua aberrante funzionalità, fa riemergere la percezione visiva e sonora dei restanti vagoni e del loro carico posteriore nel quale era ammassata un’urlante umanità in progettuale e sistematico annientamento.

Ed era stata, non a caso, proprio l’immagine di Gawkowski, affacciato dal treno e con alle spalle l’insegna di Treblinka, bloccato in una smorfia che sintetizza la paralisi della vergogna e l’ottusità dell’esecuzione, ad essere scelta come manifesto per Shoah (e chissà se avrebbe trovato l’approvazione anche di  Hanna Arendt come possibile immagine di copertina per La banalità del male). L’intenzione di Lanzmann, dalle domande e dai dubbi che si pone, non era però quella di mettere in scena il monolite tombale e cimiteriale di una tragedia allestita nella sua remota veste fantasmatica. Il suo è stato uno sfinente corpo a corpo con la morte  e con le rovine che ha lasciato dietro di sé , una costellazione precipitata di pietre d’inciampo che vogliono rendere la traversata ancora più scomoda e faticosa. E l’ambizione, non dettata da un formalista e estetizzante ego creativo ma piuttosto da una lacerante forma genealogica di perdita e dissoluzione (con implicazioni che riguardano, certo, anche la colpa e l’ossessione), è consistita nello sfruttare al massimo le possibilità del cinema di restituire un altro spazio e un altro tempo, e quindi un’altra possibilità di esistenza ma anche di nuova morte, ai suoi defunti abbandonati a quel destino di cenere; una restituzione che si materializza nell’interposta presenza di coloro i quali sono ancora in vita,  con il loro racconto capace di variare tra le tonalità di un lamento, di un’elegia, di un canto ripetuto tra la prossimità di un teso primo piano e la distesa e quieta bellezza di un paesaggio.

Presentato  in anteprima al Festival di Berlino 2025.
Su Arte.it al seguente link: https://www.arte.tv/it/videos/117204-000-A/je-n-avais-que-le-neant-shoah-par-lanzmann/


Je n’avais que le néant -Shoah par Lanzmann – Regia e sceneggiauraGuillaume Ribot; fotografia: Adrian Silisteanu; montaggio: Svetlana Vanyblat; produzione: Les Film du Poisson, Les Films Aleph; produttore: Estelle Fialon, Dominque Lanzmann; origine: Francia, 2025: durata: 94 minuti; distribuzione: Arte

 

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