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Claire Denis ritorna in Africa, dopo Chocolat (1988), girato in Camerun, e Beau Travail (1999), ambientato a Gibuti, per riprendere il suo discorso contro il capitalismo coloniale e insieme per ricordare la stella nascente del teatro francese, morta di AIDS anzitempo, Bernard-Marie Koltès, suo amico e come lei cresciuto, durante l’adolescenza, in un paese dell’Africa occidentale.
Combat de nègre et de chiens (Lotta tra un negro e i cani) è il titolo, aspro e politico, di una nota pièce che lo stesso Koltès chiese a Denis di adattare per il cinema: “dissi di sì, ma dentro di me pensavo di no, che non sarei stata in grado di farlo, che sarebbe stato troppo triste, troppo duro” (Denis in un’intervista recente). Passati più di trent’anni dalla morte dello scrittore, Denis chiama Isaach de Bankolé, grande amico di Koltès e attore in molti dei film della regista, e gli dice decisa: “facciamolo”. Da qui, da questa scelta, nasce l’eccellente Le Cri des Gardes (Il grido delle guardie), qui al Torino Film Festival, un film potente, estremo e molto attuale.
Una decisione questa, con cui Denis sembra aver voluto, ancora una volta, intrecciare desiderio e necessità per arrivare a porre domande scomode e ineludibili allo spettatore e per attivarne, a ogni inquadratura e sequenza, lo sguardo. Un modo di fare cinema, il suo, che non può evidentemente fare a meno di correre dei rischi: “forse se sapessi fare le commedie mi si aprirebbero più porte, ma si vive una volta sola. Facciamo quel che dobbiamo fare”. Magnifica Denis. Lavori, i suoi, ogni volta colmi di bellezza e di senso; mai consolatori e quindi anche mai deprimenti: piuttosto esperienze sensoriali e conoscitive che non possono lasciare indifferenti in quanto, ogni volta, richiedono in chi guarda il senso – ma vertiginoso, viscerale ed estatico – del prendere una posizione (etica e di sguardo) rispetto allo stare al mondo e alla possibilità radicale di cambiare la propria vita – l’unica che si ha. È ciò che accade anche con la filosofia e la poesia quando non si scinde la teoria dalla prassi.
La trama di Le Cri des Gardes (un grido velato, agito da vita e morte, obbedienza e resistenza) muove dall’omicidio di un operaio nero compiuto dentro un cantiere africano – forse siamo in Nigeria, anche se il luogo, la scena del crimine, resta volutamente incerto – e dal tentativo di mascherare da incidente sul lavoro il delitto da parte dei due complici, coinvolti in un rapporto morboso con implicazioni oscure e sadomasochiste: Horn, il capocantiere (un efficace, e assai dannato, Matt Dillon), e Cal, il giovane ingegnere autore del delitto (Tom Blyth, dotato di una carica fisica notevole). La mistificazione e la manipolazione operata dai due, rappresentanti di un coté razzista e machista molto usuale all’interno di cantieri in cui gruppi di soli uomini vivono per mesi lontani da casa in una sorta di regno affrancato dal rispetto di qualsiasi norma, viene bruscamente lacerata dall’arrivo di Alboury (Isaach de Bankolé, nell’ennesima magistrale performance tesa a disarticolazione le maschere della dissimulazione), il fratello dell’operaio morto, che chiede indietro il corpo per riportarlo alla famiglia e per seppellirlo, secondo gli usi della comunità. Ma il corpo, come vedremo in un crescendo di orrore e vergogna, è stato vilipeso, e per motivi di una futilità e una codardia agghiaccianti, rimanendone, alla fine, soltanto i resti ammucchiati in un sacco di plastica, uno di quelli dove si mettono le macerie edilizie.
Il corpo, la richiesta della sua restituzione -la cui ostinazione e coerenza esprimono la curvatura dello stesso posizionamento, estetico ed etico-, il volerlo riavere indietro, vicino, accanto (lo struggente sogno in apertura del film), sta anche a dire della possibilità di poterlo sentire ancora vivo nella storia e nella memoria della comunità indigena che non dimentica, non rimuove, non manipola, non estrae valore dal corpo dell’altro: nemmeno la morte può costituire quella condizione radicale dove poter avere giustizia, sembra dirci quel corpo.

Ed è appunto il corpo tanto il centro della pièce di Koltès, quanto il ‘campo’ e il ‘sintomo’ del cinema di Denis. Corpi che sono allo stesso tempo pulsioni e traiettorie viscerali; e dispositivi con cui destrutturare e riterritorializzare enunciati, istanze e forme di vita – saperi, poteri e soggettività, come nella distinzione di Foucault. Questi corpi e dispositivi li vediamo agire, strappare e sfuggire tanto rispetto alla normalizzazione dei sistemi sociali, quanto al fuoco della inquadratura della mdp, e nonostante la vicinanza, o meglio il desiderio di vicinanza che verso quei corpi emana ogni sguardo o movimento proveniente dalla stessa Denis – in assonanza, anche in questo lavoro, con la cadenza lenta, fatta di frammenti sonori e fiati accennati, dei brani della meravigliosa band post-rock dei Tinderstick.
Questo peculiare modo di usare il linguaggio cinematografico, che rimanda, tra gli altri, a Chantal Akerman e a Pedro Costa, produce un’esperienza del visibile ambigua, trasgressiva (aperta a una proliferazione di rapporti sempre nuovi), ellittica (costruzione narrativa e tessitura, questa, in cui Denis eccelle) e in costante trasformazione: un dispositivo che obbliga a vedere le ‘prigioni’, e gli inferni (ma senza alcun compiacimento kurtziano), in cui siamo immersi e che riproduciamo; e un invito a entrare nel groviglio delle attrazioni, lotte, spazi notturni e recinti gridati dove occorre perdersi per potersi, magari, anche ritrovare. La stesso segno sui corpi – la luce e lo sguardo che li illumina o li lascia in ombra – può, in questo senso, indicare anche altrettante forme di soggettivazione – tanto nei personaggi quanto in chi guarda. «Pensare in termini di linee mobili è quanto ha fatto Herman Melville (..) ci sono linee di “sedimentazione”, di “incrinatura”, di “frattura”»(Gilles Deleuze): un autore sismico e ‘pericoloso’ vicino alla sensibilità visiva di Denis, basti ricordare anche il suo Beau travail (1999), ispirato al celebre libro Billy Budd (1924), dello stesso Melville.
Nel romanzo Vergogna (1999), J.M. Coetzee mostra come essa dovrebbe essere l’incessante condizione esistenziale di chi ha usato privilegi e potere per colonizzare, razzializzare, inferiorizzare, sfruttare e uccidere altre persone (Coetzee racconta il conflitto sociale nel suo paese d’origine, nel Sudafrica del dopo apartheid). E la vergogna è ciò di cui chiede conto anche Leonie (Mia McKenna-Bruce), la giovane compagna di Horn arrivata da poco da Parigi per sposarlo, ai due uomini, oramai perduti in una lotta infinita e assai vecchia, seppure riattualizzata all’epoca dell’estrattivismo delle multinazionali e della retorica omicida dei manager -”fidati di me…”; ma entrambi non sono più capaci di capire il senso della domanda – incapaci di criticare le proprie condotte, di rinunciare alla propria ‘sovranità’, di assumersi le proprie responsabilità (parola brandita da Horn, il bugiardo, come fosse il machete che lo ha reso impotente), così come di poter ritrovare la compassione, e a partire dalla fragilità che accomuna tutti e che tuttavia non sono più capaci di riconoscere.
Nell’ultima sequenza vediamo Alburny riportare i resti del fratello alla sua comunità, mentre sullo sfondo campeggiano due tubi petroliferi abbandonati, presenze spettrali di una ‘fogna’ in rovina.
Le Cri des Gardes – Regia: Claire Denis; sceneggiatura: Andrew Litvack, Suzanne Lindon, Claire Denis dalla pièce Lotta di negro e cani di Bernard-Marie Koltès; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Guy Lecorne; musica: Tindersticks; interpreti: Isaach de Bankolé, Matt Dillon, Mia McKenna-Bruce, Tom Blyth, Brian Begnan, Moussa Thiam; produzione: Oliver Delbosc, Gary Farkas, Clément Lepoutre, Olivier Muller, Olivier Père, Anthony Vaccarello per Arte France Cinéma, Astou Films, Curiosa Films, Goodfellas, Saint Laurent, Vixen in associazione con WILLA; origine: Francia, 2025; durata: 107 minuti.
