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Voto
Tallin, capitale dell’Estonia, con lo storico porto disteso su un Mar Baltico livido, vasto e riflettente, è la città dove è ambientato Mo Papa, secondo lungometraggio, dopo il premiato Mo Mamma (2023), della giovane regista Eeva Mägi: fin dalle prime immagini, un luogo che si fa anche cifra esistenziale del sentimento dolente che attraversa il protagonista.
In apertura vediamo un ragazzo uscire di prigione, con la mdp alle sue spalle che lo pedina, dopo essersi guardato intorno, alla ricerca forse di qualcuno, lo vediamo percorrere a piedi la strada che separa il carcere dalla città. Arrivato a casa, una dimora vuota, dove non lo aspetta nessuno, Eugen (grande performance di Jarmo Reha, che forse meriterebbe un premio in questo 43° Torino Film Festival) si guarda di nuovo intorno, smarrito e sempre più angosciato. Dopo aver staccato dalla parete una cartolina stropicciata raffigurante una frase affettuosa rivolta alle mamme, Eugen arriva davanti alla finestra, con l’inquadratura che diventa una semi-soggettiva sul ragazzo – la mdp gli è accanto, e in questa posizione la ritroveremo spesso durante tutto il film. Il ragazzo guarda fuori a lungo fino a che, rivolto a uno spazio vuoto, pronuncia la prima frase del film: “che cosa sto guardando?”.
Un inizio indubbiamente denso, diretto ed enunciativo: l’immagine sta qui a disegnare tanto il possibile rapporto di Eugen con il suo “io”, in relazione, in particolare, con l’istanza immaginaria e riflessiva del sé costituita dalla ricerca dell’“altro” per mezzo del cui sguardo (tramite la morfologia della finestra-specchio) poter avere l’atteso riconoscimento; quanto la domanda riguardo la visibilità e lo sguardo in gioco, ovverosia il modo singolare della regista riguardo il ‘come’ raccontare questa storia.
Quanto alla trama siamo dalle parti, più classiche, di una narrazione divisa in tre parti: perdita, espiazione e redenzione. In questo forse contribuendo l’animo letterario, e baltico, di Mägi, scrittrice oltre che regista. Seppure la stessa autrice abbia rimarcato come Mo Papa non sia un film sostenuto da una sceneggiatura scritta, ma piuttosto sia un lavoro collettivo caratterizzato da esperienze e voci reali, plasmate da quello che la regista ha “sentito, respirato e vissuto” durante un periodo in cui ha lavorato in una struttura psichiatrica.
Il film segue e racconta la storia del trentenne Eugen, cresciuto in orfanotrofio e appena uscito di prigione dopo aver scontato una pena di dieci anni per un tragico incidente – la morte del fratello minore. Il ragazzo è ‘spezzato’ – e lo è a partire dai moti del suo corpo-, vittima di una colpa impossibile da comprendere e da perdonare in quanto interiorizzata: le proiezioni agite su di lui, come un sintomo balordo e paranoico, dalla cattiva coscienza di un tessuto sociale allo sbando.
Eugen è preda dei fantasmi del passato (ne viene ‘agito’), un ombra cupa che affonda le unghie in traumi profondi: quello appunto dell’abbandono da parte dai genitori, e l’altro, più recente, del suicidio della madre accaduto dopo la morte del fratello minore -qui una sceneggiatura più curata avrebbe aiutato a dipanare meglio gli snodi di un intreccio così gravido di conseguenze. Disperatamente alla ricerca del perdono da parte del padre (Rednar Assus), un uomo annichilito e impotente che si nasconde nel ventre di una piccola bottega ottica, la cui gestione minima lo occupa in modo totalizzante limitandone il rapporto col mondo, Eugen vorrebbe avere una seconda possibilità, a partire però dall’essere accettato -dal padre e dalla società che invece, allora come ora, lo escludono e non lo riconoscono, determinando nel ragazzo una forma di morte psichica, oltre che sociale. Nel mondo che è andato avanti senza di lui per dieci anni, le uniche persone che sono felici di ritrovarlo, e di amarlo di nuovo, i soli legami rimasti, insomma, sono quelli con Stina (una intensa Ester Cunto che a tratti ricorda Kerry Fox in Intimacy di Patrice Chéreau) e Rico (Paul Abiline in un ruolo non facile), anche loro cresciuti nello stesso orfanotrofio di Eugen e anch’essi, quindi, segnati da esperienze di rifiuto e di emarginazione il cui portato -e la cui non elaborazione, allorché è probabilmente questa assenza uno dei problemi del film- rende difficile il vivere attuale. Tra ansia, disistima e accenti autodistruttivi, i tre ragazzi si percepiscono come in costante esilio (dal sé), ritrovandosi a vivere in uno spazio fatto di continui strappi e di vuoti troppo grandi – ovvero la “pathosformel“ dell’abbandono e del rifiuto che non smette di ripetersi.
E se su un piano narrativo la reiterazione (della sofferenza) e la progressione (in fondo classica) non convincono fino in fondo, efficace appare, invece, la qualità visiva dello sguardo della regista. Notevole, in particolare, è da una parte la messa in scena del vuoto che (ri)guarda Eugen, e dall’altra il tentativo di colmare quel vuoto con la vicinanza – qualità affettiva – della stessa mdp. L’attenzione alle emozioni, ai gesti e soprattutto agli sguardi di Eugen, senza il bisogno di fornire spiegazioni e senza la necessità dell’appiglio in fiacchi psicologismi, ricorda anche il “pedinamento morale” dei fratelli Dardenne. Un modo di seguire i personaggi, questo, che coinvolge, e costitutivamente, sia l’etica che lo sguardo.
Purtroppo è soprattutto nel finale che la negletta sceneggiatura – o forse anche la forma, sintomatica, di voler organizzare in extremis quel ‘vuoto’- irrompe nel film rendendolo squilibrato, improbabile e anche retoricamente punitivo. Caduta su caduta, la redenzione finale di Eugen arriverà con la ruota illuminata del Luna Park che lo conduce verso l’alto: finalmente libero di esistere, anche se in un cielo vuoto.
Mo Papa – Regia e sceneggiatura: Eeva Mägi; fotografia: Sten-Johan Lill; montaggio: Jette-Krõõt Keedus; scenografia: Allan Appelberg; suono: Tanel Kadalipp; interpreti: Jarmo Reha, Rednar Annus, Ester Kuntu, Paul Abiline; produzione: Sten-Johan Lill, Eeva Mägi; origine: Estonia, 2025; durata: 88 minuti.
