43° Torino Film Festival (21-29 novembre 2025): Nuremberg (Normberga) di James Vanderbilt (Fuori concorso – Film di chiusura)

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La rappresentazione delle contraddizioni e delle ambiguità del potere, in particolare quando questo è legato alla capacità di esercitare il male, corre sempre il rischio di cadere in una forma di fascinazione e spettacolarizzazione quando ad occuparsene sono le grandi produzioni hollywoodiane. Nuremberg, scritto e diretto da James Vanderbilt, incentrato sul processo che ha portato all’istituzione del processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti, ha  un illustre antecedente in Vincitori e vinti (1961) realizzato da una figura piuttosto innovativa all’epoca per l’industria cinematografica statunitense:  Stanley Kramer, produttore e regista, che aveva portato nel cinema americano un’impronta più asciutta e diretta dal linguaggio televisivo (dove si erano formati altri grandi cineasti della New Hollywood come Arthur Penn e Robert Altman). Quel film, il cui titolo originale era il più secco Judgment at Nuremberg, trattava un argomento ancora relativamente recente e assai complesso e controverso con un rigore drammaturgico (da un radiodramma di Abby Mann) ed estetico (un marcato bianco e nero sulla scarna ambientazione dell’aula di tribunale) da riuscire ad evitare le trappole facili del superficiale intrattenimento (con una serietà anche troppo schematica). Il film di Vanderbilt, tratto dal romanzo The Nazi and the Psychiatrist di Jack El-Hai,  si affida anch’esso ad un dispositivo rigidamente narrativo, anche se costruito più a incastro: il primo livello è rappresentato dalle conversazioni che lo psichiatra militare Douglas Kelley, dopo le catture e gli arresti eseguiti dagli Alleati, ebbe in particolare con Hermann Göring, il braccio destro di Hitler, l’uomo  a lui più vicina e più fedele.

   Russell Crowe

Lo scopo è quello di tracciarne un profilo psicologico che possa dimostrane contro ogni ragionevole dubbio le responsabilità e la colpevolezza per il crimine più atroce e definitivo, la costruzione dei campi di concentramento e l’attuazione programmatica del genocidio di sei milioni di esseri umani.

In questo primo stadio del racconto, nel rapporto tra i due si afferma bene presto una confidenzialità e un’informalità  che rovescia il gioco delle parti: è Göring a manipolare lo psichiatra, arrivando a fargli credere di poter ridurre l’assolutezza dell’olocausto e le colpe dei suoi ideatori ed emissari  nella definizione del profilo di una personalità narcisistica e fanatica.

Le implicazioni etiche, politiche e giuridiche di quell’ evento non possono essere però contenute dalla perimetrale prigione di segreti e bugie del mellifluo aguzzino, che non esita ad utilizzare la moglie e la figlia per imporre  una sorta di ricatto sentimentale, nel ritratto di un amore paterno e maritale, su Kelley, cosi da poterne attenuare il report. L’azione si sposta dunque sui banchi più solenni del tribunale internazionale e il processo, da escamotage elaborato per non applicare  contro i nemici un giustizialismo equivalente a quello dello spietato regime del Terzo Reich, si trasforma nella testimonianza raccontata ed esposta davanti al mondo intero (che per buona parte, fino a quel momento e nonostante i minacciosi segnali,  era stato indifferente ed omissivo) dell’orrore, non immaginabile e non rappresentabile, che era accaduto dietro la facciata comunque disumana dei “campi di lavoro”.

Il privato e il collettivo, lo storico e il personale si sovrappongono in una maniera cronologica da un punto di vista della scansione temporale dei fatti (dalla cattura all’esecuzione delle pene di morte per tutti i responsabili) e che trova il punto di un crocevia di interessi e sentimenti, anche nell’acquisizione di una consapevolezza e di una coscienza, nel personaggio di Kelley; nel suo passare dalla posizione più esterna sul banco del pubblico che assiste al processo, vede ed ascolta i fatti documentati assieme al  resto della ignava umanità a quella, emotivamente coinvolta e sempre più sconcertata, dello psichiatra che verrà sollevato dall’incarico, una volta constatata la sua perdita di neutralità ed efficienza.

Vanderbilt sceglie allora di spostare il piano dell’indagine storica sul retroscena di ciò che ne alimenta le ragioni e le conseguenze dall’una e dall’altra parte. Kelley incarna, con i sui dubbi e le irruenze ben oltre i limiti di una zelante professionalità, un aspetto più profondo della reazione di indignazione e sgomento suscitata dalle testimonianze riportate, dai sopravvissuti ebrei come dai loro carnefici,  durante quei tesi e infuocati giorni (quasi la tetra contro celebrazione di un lungo rituale di morte): la sua strisciante attrazione e poi il brutale disincanto nei confronti di Göring, che arriva a negare di sapere delle torture, delle esecuzioni sommarie, perfino delle camere a gas presenti nei campi, esprimono la crisi dell’uomo moderno di fronte al concetto di verità, alla sua ossessiva ricerca e alla necessità altrettanto logorante di poterne produrre una prova tangibile e riscontrabile.

Nel suo precedente film dall’eloquente titolo Truth – Il prezzo della verità, Vanderbilt , adattando le memorie della giornalista Mary Mapes, aveva già  raccontato quanto fosse strettamente correlata la vacuità o incertezza di un dato, di un’informazione, di una fonte con la forza e l’ efficace della comunicazione mass mediatica per dimostrare che un evento sia radicalmente accaduto. Nuremberg, andando a toccare la portata tragica senza fondo e senza fine della Shoa, prova a cogliere il punto nevralgico della questione;  il pericolo del ribaltamento di qualunque presupposto valoriale, messo in discussione da un cambio di percezione. Il carisma di Göring corre il rischio di diventare una caratteristica inscindibile, nell’ impatto soggettivo prima e nella valutazione  professionale poi, di Kelley, per riuscire a distinguerne l’aspetto perverso, disfunzionale, distruttivo. Nella sua struttura convenzionale il film non riproduce però, e forse per fortuna, la crescente tensione di Kelly verso il suo diabolico paziente. Le immagini restano paludate e ancorate ad una robustezza/pesantezza spesa quasi esclusivamente al servizio del condurre la narrazione sulla linea orizzontale di un precostituito apologo,  dove il posizionamento dei buoni e dei cattivi, della giustizia e dell’empietà, sono chiariti, definiti, non possono essere fraintesi.

             Rami Malek e Russell Crowe

I lampi di un presunto impazzimento psicotico sono limitati ai grandi occhi sgranati di Rami Malek nel ruolo di Douglas Kelley (che anni dopo, ancora ossessionato e perseguitato dai fantasmi di Norimberga, si sarebbe suicidato con un pasticca di cianuro, come fece lo stesso Göring per evitare la condanna all’impiccagione), mentre la sentenza accomodante coscienze ed omissioni è elisa da un gioco di prestigio apparso sull’espressione sorniona del mascherone di Russell Crowe (un Göring più misurato del temibile). La struttura a incastri processuali, in alcuni momenti, rievoca l’ Oppenheimer di Christopher Nolan, con l’ombra della distruzione totale come proiezione di un senso di colpa  per non aver voluto capire e vedere la vera faccia della mostruosità umana come della sua protesi tecnologica. Ma se nella labirintica biografia nolaniana  la precarietà piscoemotiva e i tormenti esistenziali del personaggio vibravano al cospetto dell’esplosione della bomba nucleare, la sua invenzione/soluzione definitiva, in Nuremberg il conflitto autodistruttivo di Kelley viene più detto, enunciato, narrativizzato.

Suggestioni o più prosaicamente indicazioni che potrebbero essere sintetizzate in un’unica immagine: l’occhio che si spalanca nella tempesta a forma di esplosione atomica, rivissuta dall’anziana protagonista di Rapsodia in agosto (1991), una delle riflessioni più struggenti sulle conseguenze delle guerra mondiale subite dai vinti,  per la rappresentazione dello sguardo quantomai doloroso e allucinato di Akira Kurosawa. Come se gli occhi giganteschi di Malek Kelley, e di Cillian Murphy Oppenheimer potessero posarsi e guardare la vastità di una simile distruzione nello spazio di questa terra e la permanenza della sua durata nel tempo della memoria.

In sala dal  18 dicembre 2025.


Norimberga (Nuremberg) –  Regia e sceneggiatura: James Vanderbilt; fotografia: Dariusz Wolski; montaggio: Tom Eagles; musiche: Brian Tyler; interpreti: Rami Malek, Russell Crowe, Leo Woodall, John Slattery, Mark O’Brien, Colin Hanks, Michael Shannon, Richard E. Grant; produzione: Bluestone Entertainment; Walden Media, Titan Media, Mythology Entertainment, Columbia Pictures Entertainment, Sony Pictures Entertainment; origine: Usa, 2025; durata: 148 minuti; distribuzione: Eagle Pictures.

 

 

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