In una bella scena di Youth (2015) uno dei personaggi principali, il regista ottantenne, si ritrova circondato dai personaggi nati dalla sua immaginazione. Non riesce a seguire i fili dei loro discorsi, si perde. È vecchio. In una scena altrettanto bella de È stata la mano di dio (https://close-up.info/?s=%C3%88+stata+la+mano+di+dio) il protagonista Fabietto è in una sala piena di comparse dai caratteri più disparati, tutti in attesa di farsi provinare da Fellini. Fabietto ancora non lo sa, ma quelle figure che ha attorno saranno i suoi di personaggi, quelli da lui creati, o meglio, ideati da chi lui in realtà è perché alla fin fine questo è un film di Sorrentino nel quale si muove Sorrentino stesso, da giovane. E non si smarrisce, lui.

Napoli è bella e Napoli ha il suo lessico, famigliare e non. Non può mancare San Gennaro, con autista al seguito, né il monachello portafortuna, e neppure il sangue caldo della donna procace, quella che è femminilità ridondante, sprezzante, capace di far abbassare gli occhi ai mariti e alzare, fissi, quelli dei giovani. La zia di Fabietto è così, musa pazza, prima esponente di un quadretto famigliare dominato da figure secondarie narrate alla maniera di Sorrentino: una caratteristica sopra tutte a regnare, pungente e oscurante, ma non tale da rendere i personaggi macchiette. Si salva il grondante disagio interiore, quello di ispirazione umoristica pirandelliana. I rumori della famiglia si accalcano, si mangiano tra loro, e solo altro svolazza sopra tutto, fischiettii. Uno zufolio da una parte, uno zufolio a rispondere dall’altra. Sono loro, i genitori di Fabietto.
Perfetti nelle loro imperfezioni marcate, che non vanno a rovinare la coppia neppure quando si aggravano, rappresentano il primo tassello di quel mondo fatato che è la Napoli del giovane. L’agognato approdo di Maradona da una parte, e loro, madre e padre, dall’altra, creano quella realtà che potrebbe bastare per preparare una maturità dolce. È però destino della realtà che si faccia scadente, e per diventarlo – scadente – è necessario che un appoggio rimanga in piedi, l’altro crolli: Maradona arriva, i genitori muoiono. Fabietto vorrebbe vederli un’ultima volta, come a fare l’autopsia di questa realtà andata, ma non può: la realtà è ora terra sterile, manca un elemento fondamentale per renderla feconda.
Per chiunque sia un abitudinario di Paolo Sorrentino, la prima cosa che balza all’occhio nella sua nona pellicola è la mancanza di offuscamento luminoso. Da This must be the place (https://www.closeup-archivio.it/this-must-be-the-place) la mdp del regista era di continuo abbagliata a mischiare l’onirico al sacro, lasciando possibilità di risonanza semantica. Qui non è così. Incantato e famigliare è l’ambiente, incantata e famigliare diventa la fotografia giocando di colori caldi che si richiamano negli ambienti della casa. La sacralità diventa intima, gli eccessi appartengono al lume di lampadari rovesciati e freddi vomiti di vulcani.
Fuori c’è il sole, certo, quello napoletano, ma i raggi non scottano bensì proteggono il protagonista e salvaguardano il movimento della camera. Quest’ultimo, in effetti, non cambia: la camminata filmica sorrentiniana è da sempre quella dell’animale timido e curioso che spunta dalla tana e viene incontro all’azione superando sponde di letti, salendo le scale, avvicinandosi di soppiatto alla persona. Sempre il personaggio lo trova in attesa, a volte con le orecchie attente, altre volte in piena distrazione, quest’ultimi i momenti più esplicativi dei loro caratteri.
Ciò che però non cambia, e non potrà mai cambiare, al massimo affinarsi, è l’umorismo. Anni fa Sorrentino diceva che l’umorismo era basilare per il suo cinema perché gli suggeriva il ritmo. Se il ritmo era stato smarrito in Loro (https://www.closeup-archivio.it/loro-1), qui viene ritrovato ed è ‘l’uomo in più’ nei momenti fondamentali. Laddove le scene si fanno nuove per il cinema sorrentiniano, laddove il diaframma umoristico deve per forza lasciar spazio al dolore della tragedia che non può essere taciuto, ecco che il ritmo è àncora di salvezza. È sufficiente un «che bambino de merda» perché la mdp riaffiori dal vuoto e il battito ritorni a pulsare: il film si rimette in moto, per il protagonista è ora di risollevarsi.

Fabio guarda un uomo appeso a testa in giù nella Galleria di Napoli e non sa di essere stato lui stesso ad avercelo messo. Per ora è opera di Antonio Capuano, un omaggio a colui che nella vicenda deve opporsi per convincerlo a partire. È questione di far vedere quel qualcosa che nell’antichità veniva vaticinato nelle interiora degli animali o per bocca di donne non credute, e che al giovane viene indicato prima nella camera da letto di una baronessa e poi sotto Napoli stessa per bocca del maestro regista. Si parla del futuro. Una volta intravisto, oppure intuito, è giusto sedersi a riflettere, magari accanto alle pendici di un vulcano, ma non per molto, non per troppo: la realtà è scadente, ma prima che scada del tutto l’arte deve sbrigarsi a salvarla e lui, Fabio, a non ‘disunirsi’ per aiutarla nel compito.
A rileggerne l’autobiografia, È stata la mano di Dio è idealmente il primo film del regista, eppure necessitava di vent’anni di apprendistato per essere girato. Senza quella gavetta non sarebbe uscito il capolavoro che è, poiché nulla è più ammirevole di un artista che si rinnega per riaffermare con maggior forza se stesso. È la capacità di riscrivere, di mettere se stessi al servizio della storia, e non viceversa.
Alla fine lasciamo Fabio su un treno diretto a Roma, in mano la voce donatogli dalla musa e Napoli alle spalle, in lui l’intenzione di diventare un cinico re della mondanità o una pop star in cerca dell’aguzzino del padre, o magari un musicista affetto di apatia o ancora un divo democristiano, o forsanche tutti loro e al contempo qualcun altro. Per esempio, perché no?, Paolo Sorrentino.
Dal 15 dicembre su Netflix
È stata la mano di Dio – Regia e sceneggiatura: Paolo Sorrentino ; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Carmine Guarino; costumi: Mariano Tufano; interpreti: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Ciro Capano, Enzo Decaro, Sofya Gershevich, Lino Musella; produzione: The Apartment, Netflix; origine: Italia 2021; durata: 130’; distribuzione: Lucky Red e Netflix.
