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Voto
Le vie del documentario sono infinite, ma quelle nelle quali si ritrovano interviste, testimonianze, materiali d’archivio e musica, sono tra le più battute. Strade per niente accidentate dove intrattenimento, informazione, conoscenza storica e impegno civile procedono senza intoppi per arrivare puntali all’appuntamento con il pubblico.
Love, Deutschmark and Death di Cem Kaya, nella sezione Panorama della Berlinale, mostra sin dall’inizio le confortevoli sembianze di un prodotto che prende per mano lo spettatore per condurlo dentro una storia lunga più di mezzo secolo. Il quarantaseienne regista tedesco con premura dispensa le nozioni utili a comprendere le vicende storiche che coinvolsero milioni di turchi costretti a emigrare in Germania, con mestiere alleggerisce eventuali tensioni con cambi di ritmo e, infine, non rinuncia a suggerire possibili spunti per una riflessione sul nostro presente. Un film che alterna impegno e intrattenimento, con un linguaggio perfettamente decifrabile.

La storia ha inizio nel 1955, quando la Repubblica Federale Tedesca decide di accogliere o reclutare, a seconda dei punti di vista, lavoratori provenienti da Portogallo, Spagna, Italia, Jugoslavia, Grecia e Turchia. E proprio con Istanbul viene siglato un accordo nel 1961. Uomini (quasi un milione e mezzo) e donne (approssimativamente seicentomila) lasciano le coste del Mediterraneo direzione nord, e giunti alla meta si sottopongono a una scrupolosa valutazione medica, non “per diventare dei campioni olimpici”, bensì per essere arruolati nelle fabbriche della Germania Ovest, cioè nel paese che si è lasciato alle spalle orrori e rovine e che ora punta a diventare il faro del nuovo capitalismo europeo. Servono operai in salute pronti a subire le prime imposizioni del mercato unidirezionale, dove lavorano in tanti e si arricchiscono in pochi.
È in un contesto di evidente ingiustizia sociale e contemporaneo sradicamento che la musica popolare turca assurge al ruolo di arte della testimonianza e della protesta, nonché a momento privilegiato nel quale poter ancora riconoscere la propria e altrui identità. Così, insieme ai preziosi e originali materiali d’archivio, prendono la parola autori come Metin Türköz che si fanno immediatamente interpreti dei bisogni e dei desideri di chi ora vive lontano da casa. Musicisti che diventano anche messaggeri per i cittadini tedeschi, inerti di fronte allo sfruttamento messo in atto e complici di un’economia che avanza grazie alla spinta di milioni di persone collocate ai margini della collettività.
Col passare degli anni il fenomeno cresce, le vendite di musicassette si incrementa e si assiste a una progressiva metamorfosi. La musica delle origini prende sempre più contatto con la realtà circostante e musicisti come Cem Karaca si esibiscono anche in tedesco. Una contaminazione che arriva insieme alla crisi energetica del 1973. Un punto di svolta. È proprio negli Settanta che il fenomeno migratorio si trasforma in un più esplicito contrasto sociale. Si ascoltano frasi che oggi fanno parte drammaticamente del linguaggio comune, riferite alla volgare pretesa di favorire i lavoratori nati in patria e di respingere gli stranieri al confine. Gli accordi con la Turchia si interrompono, ma non le migrazioni che, anzi, si incrementano.
Arrivano gli anni Ottanta e i primi gravi atti xenofobi che poi si tradurranno in rappresaglie, omicidi e stragi. La mercificazione prende il sopravvento. L’industria culturale assopisce ogni istanza di protesta e la musica diventa colonna sonora di matrimoni e feste. Un ritorno alla politica e alle rivendicazioni sociali si intravede con l’insorgere dell’hip hop ma ormai sembra tutto incanalato dentro una moda.
Quel che rimane alla fine del documentario è la testimonianza di un’esperienza artistica collettiva fluida, capace di sfuggire a ogni etichetta e di fondere tradizioni e nuovi impulsi, generazione dopo generazione. Al di là di questa annotazione, però, quello che colpisce è l’assenza della storia della Germania. Niente Guerra Fredda, Muro, Cortina di ferro, opposizioni ideologiche, lotta armata, un solo riferimento superficiale alla caduta del Muro, nessuna menzione dell’unificazione delle due repubbliche. Verrebbe quasi da pensare a un’ucronia, a un documentario nel quale si è data rappresentazione di un mondo parallelo. Forse per certi versi è proprio andata in questo modo, è venuta meno la condivisione della storia…delle storie.
Cast & Credits
Aşk, Mark ve Ölüm (Love, Deutschmark and Death) – Regia: Cem Kaya; sceneggiatura: Cem Kaya, Mehmet Akif Büyükatalay; fotografia: Cem Kaya, Mahmoud Belakhel, Julius Dommer, Christian Kochmann; montaggio: Cem Kaya; suono: Fatih Aydin, Armin Badde, Tarik Badaoui, Thorsten Bolzé, Dalia Castel, Tim Gorinski, Cem Kaya, Kris Limbach, Jule Vari; produttori: Mehmet Akif Büyükatalay, Stefan Kauertz, Claus Reichel, Florian Schewe; produzioni: filmfaust GmbH, Film Five GmbH; origine: Germania, 2022; durata: 96’.
