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Voto
Amaia ha appena partorito. Amaia ha una figlia. Da qualche ora, Amaia non è solo Amaia, ma è anche una bambina dagli occhi neri e dal viso atterrito. Di più, per ora, non è dato sapere: la sua vita precedente non rientra nel campo visivo offertoci dalla cinepresa. Il corpo estraneo eppur sorprendentemente noto della nuova arrivata invade le stanze ingombre in cui la giovane madre, in un tempo ormai lontano anni luce, allestì la sua esistenza.
Tale è lo scenario da cui Alauda Ruiz de Azúa tesse le sue fila: Cinco Lobitos si apre sull’angusto palcoscenico della famiglia. Non c’è un prima, non c’è un dopo, c’è solo un eterno presente il cui passato si svela attraverso piccoli rituali quotidiani dall’apparenza effimera. La regista debutta sull’ambitissimo red carpet berlinese in compagnia di un cast eccezionale e già in gran parte rodato – A vestire gli scomodi panni della protagonista sarà infatti Laia Costa, l’indimenticabile Victoria di Sebastian Schipper (2015), pronta ad evadere dai claustrofobici corridoi di una capitale semi-sfigurata per immergersi in un paesaggio dai lineamenti più ospitali e rassicuranti.
Dopo il parto, ogni gesto si fa doloroso, come se l’ordinaria routine, sconvolta dalla catastrofica banalità dell’evento, si avviluppasse sulle sponde degli ultimi nove mesi: Amaia fatica a muoversi all’interno delle proprie mura domestiche, così come fatica a ritrovare le giuste coordinate per orientarsi all’interno delle proprie membra. Le cicatrici non le permettono di scappare, o meglio, di sgusciare come vorrebbe nella fase successiva – quella dell’abitudine. L’incipit di questa strana avventura è tutto un viavai di volti e voci dalle cadenze riconoscibilissime: ad assistere la ragazza sono difatti il padre Koldo (Ramón Barea), una creatura schiva e sfuggente, nonché il compagno Javi (Mikel Bustamante), la cui presenza-assenza si trasformerà presto in un peso troppo opprimente per poter essere tollerato.
L’universo maschile viene spesso confinato ai margini, come se l’occhio indulgente dell’autrice lo circumnavigasse per dirigersi verso altri litorali, più selvaggi e impervi. Così, viaggiando nel bel mezzo del grottesco sistema solare, conosciamo Begoña (la musa di Almodóvar Susi Sánchez), madre terribile e benevola, una donna tagliata con lo scalpello ma cesellata con la grazia e la precisione di un acquafortista: Begoña è rude e schietta perché non conosce altro modo di amare, un suo anatema vale più di mille carezze. La precarietà dei legami genitoriali si dipana a stento, come un nastro gelosamente involto nella matassa: quando Javi dovrà lasciare Madrid per motivi lavorativi, Amaia rientrerà nel suo bozzolo, ritagliandosi uno spazio privato finora negatole e cercando asilo fra le braccia di un’infanzia mai completamente abbandonata.
Allora e solo allora l’opera potrà iniziare a scriversi: nella seconda parte del lungometraggio, osserviamo la protagonista rifugiarsi nella terra d’origine, sui pendii scoscesi che videro crescere la regista stessa. All’inurbata entropia della metropoli si sostituisce dunque l’incolta e piovosa fotografia dei Paesi Baschi, con il loro vento del nord e il Mar Cantabrico che non dorme mai – esattamente come i personaggi di questo lungo dramma da camera. Dapprima si schiude un limbo in cui l’impossibile si fa possibile: la neonata, centro gravitazionale del capitolo precedente, corre a nascondersi dietro le quinte per far posto ad Amaia, a Begoña e a Koldo, alle loro esistenze in bilico fra un microcosmo familiare e un macrocosmo sociale talvolta difficilmente coniugabili. Impariamo quindi a conoscere le ingombranti fragilità di Begoña, la caparbia sbadataggine di Koldo, nonché l’infrangibile (e, almeno fino a questo istante, insospettabile) tenacia della loro unica figlia. Ma la sinfonia di Alauda Ruiz de Azúa non è composta in chiave minore, un’ironia strisciante e irresistibile spinge lo spettatore a rintanarsi nei propri ricordi, trasformando la tragedia in commedia.
Un anno passa indisturbato senza che nulla cambi, senza che nulla rimanga uguale: il labile equilibrio si spezza definitivamente in un fosco pomeriggio d’autunno, durante l’ennesima discussione attorno al desco imbandito – per intenderci, il fatidico momento in cui i commensali si rigurgitano addosso le consuete nevrosi. Questa volta, però, qualcosa non va come dovrebbe e l’infrangibile Begoña depone la sua corazza. La morte, così come mesi prima fece la vita, scava all’interno della magione per trasformarne la fisionomia. Begoña si scopre, suo malgrado, irreversibilmente malata. Una volta dimessa dall’ospedale, ogni gesto si fa doloroso: la donna fatica a muoversi all’interno delle proprie mura domestiche, così come fatica a ritrovare le giuste coordinate per orientarsi all’interno delle proprie membra. Per fortuna c’è Amaia, terribile e benevola, tagliata con lo scalpello ma cesellata con la grazia e la precisione di un acquafortista. In poche parole, la madre diventa figlia, la figlia diventa madre. Abbiamo l’impressione che il film ricominci da capo, che la cinepresa segua un percorso singolare destinato a ripiegarsi nel refrain d’esordio, quasi si trattasse di una bella e malinconica poesia popolare – una di quelle cantate in basco da Koldo.
Cast & Credits
Cinco Lobitos – Regia: Alauda Ruiz de Azúa; sceneggiatura: Alauda Ruiz de Azúa; fotografia: Jon D. Domínguez; montaggio: Andrés Gil; interpreti: Laia Costa (Amaia), Susi Sánchez (Begoña), Ramón Barea (Koldo), Mikel Bustamante (Javi); produzione: Encanta Films, Sayaka Producciones, Buenapinta Media; origine: Spagna 2022; durata: 104’.
