Petrov’s Flu di Kirill Serebrennikov

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Davanti a Petrov, il malconcio Ulisse di un’allucinata e febbricitante Ekaterinburg anni ‘2000, ci sentiamo un po’ ammalati anche noi. Tratto dal romanzo di Alexey Salnikov (pubblicato in Italia per i tipi della Brioschi Editore, 2020, con il titolo La febbre dei Petrov e altri accidenti) e proiettato per la prima volta nelle sale di Cannes 2021 (in cui il regista non è potuto essere presente), l’ultimo lungometraggio del regista Kirill Serebrennikov Petrov’s Flu (in originale Petrovy v grippeci toglie il respiro e ci appanna la vista. Proprio come se uno strano e misterioso morbo si propagasse dal grande schermo per insinuarsi nell’occhio e nei polmoni di chi guarda.

Un giorno nella vita di un fumettista e della sua famiglia nella Russia post-sovietica. Mentre ha una brutta influenza, Petrov viene portato dal suo amico Igor a fare una lunga passeggiata, in uns sorta di deriva, dentro e fuori dalla fantasia e dalla realtà. (Micro sinossi)

Dobbiamo ammetterlo: soltanto pochi mesi fa, questo film avrebbe avuto un sapore diverso, perlomeno alle raffinate papille gustative dell’occidentale inurbato. Il quale si sarebbe irrimediabilmente profuso in un colto pamphlet estetico-politico, soffermandosi sulle numerose citazioni tratte dai grandi classici della letteratura russa, nonché sulla confezione a dir poco originale da bel prodotto da Festival. Ma, a due giorni dallo scoppio della guerra in Ucraina, ci ritroviamo costretti a penetrare nel lontano e vicinissimo Est, immergendo le nostre coscienze nei suburbi di un mondo in perenne stato di abbandono. In poche parole, diventiamo Petrov, il malaticcio e sciatto protagonista di questa epopea in fotogrammi: come lui, veniamo scossi da continui e raccapriccianti singulti, peregriniamo per strade che non appartengono più a nessuno, vediamo crescere intorno a noi le sbarre di un carcere invisibile.

Per Kirill Serebrennikov, tuttavia, il cosiddetto carcere non è affatto una pittoresca metafora da trascrivere fra le pagine di un taccuino: nel 2017, infatti, l’ormai ex direttore del Teatro d’avanguardia Gogol venne arrestato durante le riprese del film biografico Summer, storia di due cantautori alle prese con i Talking Heads nella Leningrado (si legga: San Pietroburgo) dei ruggenti eighties. Sotto la bizzarra accusa di finanziamenti illeciti si cela l’aperta contestazione al regime Putin che il regista portò avanti dagli albori, esprimendo il proprio dissenso di fronte all’annessione della Crimea e sostenendo pubblicamente la comunità LGBT del suo Paese. Da quell’agosto 2017 sono ormai trascorsi quasi cinque anni, e l’autore ancora si trova prigioniero di una madrepatria che madrepatria, purtroppo o per fortuna, non è mai stata.

Anche Petrov, sorta di Victoria al maschile attorno a cui ruota l’intera avventura, pare essere uscito da un nulla storicamente e culturalmente indistinto: meccanico di giorno e fumettista di notte, questo trentenne senza qualità (il nome Petrov, in Russia, equivale al nostro abusatissimo Mario Bianchi) vive due vite, o meglio, abita due immaginari antitetici solo in apparenza. A popolare la sua routine sono un figlio senza nome (Vladislav Semiletkov) e l’inafferrabile Nurlinsa (Chulpan Khamatova) che, in un passato sempre esperito al presente, fu sua moglie. Semyon Serzin si destreggia benissimo nei panni del protagonista e dei suoi miraggi rosso sangue: l’influenza di cui egli soffre è riconducibile ad uno stato fisico e psichico ben preciso – quello di un Est europeo non-europeo ma nemmeno più sovietico, quello di una generazione nata, cresciuta e invecchiata fra macerie e avanzi.

La cinepresa adotta la logica modernista e primonovecentesca di Joyce, Dos Passos e Döblin: lo sguardo di Serebrennikov vaga in un dormiveglia fatto di flashback e flashforward, di piani sequenza soffocanti e riprese dall’alto in pieno stile Dogville (un epitaffio all’amato Teatro Gogol?), alterando la cruciale linearità sulla quale s’innestano gli eventi narrati e mescolando fra loro i tempi in cui l’esistenza di Petrov si svolge.

Così, vediamo il giovane uomo saltare su un carro funebre in compagnia del mefistofelico Igor (Yuri Kolokolnikov) e di un non-morto placidamente addormentatosi nella sua bara fiorita – ogni riferimento a persone o leader politici assopiti nei mausolei è del tutto casuale. Vediamo l’amico e aspirante romanziere Sergei (qui interpretato, guarda caso, dal cantautore ucraino Ivan Dorn) infilarsi in bocca la canna di una rivoltella e chiedere a Petrov di premere il grilletto, donando corpo e voce all’eterno silenzio stampa in cui i poeti di Ekaterinburg vengono quotidianamente gettati. Infine, vediamo il figlio prendere il volo e salire su un’astronave aliena, tradendo la propria malcelata appartenenza ad un’altra galassia – che si tratti del misterioso e ignoto Ovest? O forse del misterioso e ignoto Est?

E poi c’è la donna, vittima travestita da carnefice, spettro segretato ai margini, volto nascosto sotto la maschera del patronimico: l’identità di Nurlinsa Petrovna, ad esempio, è indissolubilmente legata al cognome dell’ex marito, e questo è un atto imperdonabile. Bibliotecaria di giorno, assassina seriale di notte, madre apprensiva e fanciulla mai cresciuta: così la immagina il compagno, rievocando con tedio e orrore alcune tediose e orrende fantasie da film Marvel da tempo importate nel caliginoso palcoscenico post-sovietico.

Ma il personaggio che, più di chiunque altro, glossa l’intero film è Marina (l’incantevole Yulia Peresild), la Regina delle Nevi che abita il paesaggio favolistico dell’infanzia color seppia rievocata da Petrov attraverso alcune diapositive stantie. Gli ultimi venti minuti sono tutti dedicati al suo melodramma in bianco e nero, recitato fra le squallide aule scolastiche della vecchia URSS: da allora non è cambiato nulla, i miti e le leggende di quell’infernale calderone altresì chiamato Russia vengono costantemente violati, umiliati, trivializzati da un occhio a cui nulla sfugge – un occhio che muta la principessa in bigliettaia, che trasforma il sogno di prima nel delirante e morboso dormiveglia di oggi.

Dispersi nei fumi tossici dell’odissea storica attualmente in corso, ci domandiamo se Serebrennikov parli il linguaggio della follia o se, al contrario, l’intricato marchingegno europeo non abbia iniziato a girare al contrario: e allora non rimane che affidarci alla visionaria ragionevolezza di chi, meno di un anno fa, aveva cercato di metterci in guardia.

In sala dal 1 marz0


Cast & Credits

Petrov’s FluRegia: Kirill Serebrennikov; sceneggiatura: Kirill Serebrennikov; fotografia: Vladislav Opelyants; montaggio: Yuriy Karikh; interpreti: Semyon Serzin (Petrov), Chulpan Khamatova (Nurlinsa Petrova), Vladislav Semiletkov (figlio di Petrov), Yuri Kolokolnikov (Igor Artyukhin), Ivan Dorn (Sergei), Yuri Borisov Sasha, amico d’infanzia di Petrov), Yulia Peresild (Marina), Aleksandr Ilyin (Viktor Mikhailovich, fidanzato di Marina); produzione: Columbia Pictures, Hype Film, Arte France Cinema, Logical Pictures, Bord Cadre Films; origine: Russia, Francia, Svizzera, Germania 2021; durata: 145’; distribuzione: I Wonder.

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