Jerusalem Romeo Juliet di Fabio Omodei

«Romeo è innamorato», e il resto poco importa. Il loro dopotutto è quello, è un amore ben specifico, di quella purezza adolescenziale che nega e infrange tempi parole azioni. Non vuole ragioni. Non le richiede. Giulietta ha quattordici anni, Romeo diciassette e ciò che vogliono è l’altro, fantasma e corpo d’amore. Fuoco e fuga, a negare il giorno e poi la notte, in una rincorsa cieca verso un possibile rifugio che sia d’inganno, d’allodola o civetta. Ragazzi in un mondo e in sentimenti più grandi loro che gli adulti non possono intravedere perché accecati dal nome delle rispettive famiglie, quello che loro amanti rinnegano. Con facilità, senza scrupoli.

D’ora in avanti tu chiamami “Amore”, ed io sarò per te non più Romeo, perché m’avrai così ribattezzato.

Già si sa: Romeo e Giulietta è una tragedia in cui l’amore è innocente puro estremo e come estremo è nelle sue dosi (giorno notte, primo incontro matrimonio, pugnale veleno) così l’amore trova presto il suo personale estremo. L’odio. E come c’è sperpero d’amore, così c’è sperpero d’odio. A piene mani, a piene armi. E questo Jerusalem Romeo Juliet, per la scrittura di Paolo Alessandri e la regia di Fabio Omodei, lo coglie e lo amplifica rimandando a un futuro, 2030 o 2049, che importa? È un futuro che dopotutto sa di presente come di passato. Non più solo due famiglie e una città, ma due religioni e culture e una città santa. Gerusalemme terra per eccellenza di contrasto. E dal religioso al politico si passa al genere, uomo vs donna. E poi nel privato, tra personaggi che hanno conti in sospeso o sentimenti nascosti. Ognuno si trasforma, i nomi si fanno arabeggianti o cristiani, i movimenti dei corpi pure, e le rotelle del meccanismo raddoppiano: il tutto ruota senza pietà e chi in quegli ingranaggi finisce non può che essere stritolato. Non solo loro, però, non soltanto Romeo and Juliet. Una pagana Cassandra esordisce infatti:

Dio è unico, e se il tuo Dio è diverso dal mio, vuol dire che abbiamo dato due nomi diversi allo stesso dio. Giusto?

A quanto pare no.

Tragedia di estremi, amore e odio, per quella che è una delle opere più sbilanciate del genio inglese. Se il tragico necessita del comico per sostenersi, nel R. e G. il comico è perso per strada. E proprio su questa sponda si opera intelligentemente per sfuggire all’altra trappola, quella prima che si pone a qualsiasi regista che affronti il testo: Romeo e Giulietta sono i protagonisti, ma non devono essere lasciati soli nel sostenere l’opera. Non ne sono capaci perché immersi nel sogno. Hanno bisogno del sostegno dei personaggi secondari perché sono loro, come ben intuisce il regista, a dover sostenere il lato comico e rendere materico e pratico quello tragico che rischia di rimanere ideale se affidato alle sole parole degli innamorati: spade devono trovare altre spade, a ferite rispondono altre ferite, alle morti devono fare eco altre morti.

Alle spalle la scenografia, un neo muro del pianto, quello dei vestiti dei martiri dei due schieramenti, Mercuzio allora deborda, Benvolio e i restanti Montecchi lo imitano per scimmiottare la Gran Dance degli arabi Capuleti e sovvertirla, zitelle dall’accento spagnolo solcano la scena per richiamare Romeo ai suoi doveri e schernirlo a loro volta.

La tragedia acquisisce così un retrogusto comico in originale mancante e la spettacolarizzazione dei personaggi secondari diviene funzionale alla stessa: l’amore dei due ragazzi ne risulta rafforzato perché di sfondo e di palcoscenico, perché non unico e non il solo combattuto, lateralmente serpeggiano sotto trame e sotto storie che giustificano episodi lasciati nel vago nell’opera originale (perché la lettera fatidica non giunge mai a Romeo?) e mantengono vivo lo scontro sino alla fine, sino alla e davanti alla tomba. Laddove Paride era solo un uomo che Romeo perdona come compagno di sventure, ora ne diventa nemico acerrimo e viscido, il cui fianco viene cercato di proposito dal pugnale.

Jerulasem Romeo Juliet è una rivisitazione che non cerca l’attualizzazione bensì l’assolutizzazione. Si parla di un passato devastato e di giorni andati che però sopiti non lo sono mai per la forza corrosiva posseduta. Si agitano pistole al posto di spade ma alla fine sono ancora veleni e pugnali a cui spetta il compito finale. Si susseguono contrasti sotto forma di odi e amori, l’erotica di una cultura, quella araba, cozza contro la freddezza dell’altra, quella cristiana, e i costumi azzeccati accentuano l’una e l’altra caratteristica. Ne emerge alla fine quello che è il mistero profondo della tragedia: amore e odio certo, ma soprattutto loro, vita e morte. L’una ad accarezzare l’altra, perché Romeo è innamorato, Juliet è innamorata, e la loro pietosa storia non deve superare il verso dell’allodola o quello della civetta. Dopotutto

L’amore è forse una cosa delicata? Direi piuttosto che sia troppo rude e troppo aspra e infine troppo violenta. E punge come uno spino.

E alla fine nessuno sopravvive, né loro né tutti gli altri. In guerra perdono tutti. Chi ama, e chi odia.

Spettacolo andato in scena il 3 e 4 giugno al Teatro Vascello.

Prossime date:

VillaInVita Fermo Festival – venerdì 22 luglio


Jerusalem Romeo Juliet di Paolo Alessandri – regia: Fabio Omodei; costumi: Monica Raponi; aiuto regia: Ludovico Zago; scene: Elisabetta Mancini; direttore tecnico: Roberto Bonfantini; consulente esterno: Hebatallah Ramadan; interpreti: Sophia Angelozzi, Tommaso Sartori, Fabio Omodei, Marta Iacopini, Ramona Genna, Lucrezia Coletti, Ilaria Arcangeli, Leonardo Maltese, Francesca Rovaris, Damiano Lepri, Beatrice Pellegrino, Raffaella Mancini.

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