Festival di Cannes (2024): I dannati di Roberto Minervini (Un Certain Regard)

  • Voto

L’orrore e la pietas: sembrano essere questi, fin dalla prima inquadratura che pone lo spettatore frontalmente rispetto alla scena di alcuni lupi nell’atto di divorare la carcassa di un animale, i sentimenti attraverso cui lo sguardo di Roberto Minervini si pone sui corpi e sui paesaggi aspri che ha scelto di filmare e di raccontare ne I dannati. E lo fa, oltretutto, partendo da una posizione per lui  doppiamente straniera nel situarsi temporalmente e spazialmente: un crocevia dove si incontrano la Storia della guerra di secessione americana con le storie dei soldati che furono gli stremati e sacrificabili avamposti carnali di un conflitto ideologico sulla carta (il progressista e moderno modello di vita degli industrializzati e ricchi stati del Nord contro quello conservatore e feudale dei rurali stati del Sud), ma fatta di interessi economici ed egemonia socio-culturale sul campo di battaglia.

Diciamo subito che a Minervini la questione del contesto non interessa più di tanto,  se non in quanto manifestazione di una condizione umana portata ai limiti della tolleranza fisica e psicologica. Nel caso specifico una guerra geograficamente polarizzata che, in quanto tale, crea delle zone franche, di confine, di non luoghi espropriati  dalla propria identità, in grado di offrire non più il senso, ma la percezione di un’appartenenza a un mondo in disfacimento, familiare e ostile, struggente e minaccioso; sono boschi e le lande delle terre del Nord Ovest dove, nel 1862 (unica connotazione temporale riportata nel cartello iniziale) un pugno di soldati volontari di differente età, esperienza e credo religioso viene inviato per pattugliare e per presidiare. Ma potrebbe trattarsi dei confini sempre più disintegrati, sovrapposti e confusi di qualsiasi altro territorio e in un altro qualsivoglia momento della Storia, con ogni evidenza mai più analogo e pertinente in relazione a quello nel quale siamo immersi/sommersi adesso, nella stretta, attuale contemporaneità. Ma torniamo a quella prima inquadratura, fuor da ogni metafora homo homini lupus: probabilmente una pregressa conoscenza dell’opera documentaria  di Minervini (questo è il suo primo film totalmente di finzione, ma con stilemi esplicitamente tradotti dalla militanza nel cinema del reale) porterebbe a provare la sensazione di muoversi sul filo rasente, anzi sulla linea Maginot, per parafrasare l’ abusato utilizzo metaforico di un termine bellico, tra l’effetto sgradevole e disturbante e l’implacabile e lucida esposizione di una situazione di emarginazione, degrado, solitudine.

Quello che invece rimane e accompagna il resto della visione da un simile corto circuito tra visceralità ( e si vedono proprio le viscere dell’animale sbranato) e laconica, silenziosa osservazione, è la costante reviviscenza di una compassione, di una commozione muta e interiore di ciò che accadde o, meglio, che non accade. Gli animali, predatori o vittime che siano, sono costretti dalla natura selvaggia a nutrirsi gli uni degli altri; eppure in loro, nel loro aggirarsi basicamente famelico, o quantomeno nel modo nel quale Minervini li riprende in quel long take iniziale, è già contenuta la dolente preveggenza di una sconfitta, la sottomissione a una barbarie. E il passaggio di testimone, o il salto di specie, tra l’inevitabile ciclo della catena alimentare ferina e  l’intenzionale scontro fratricida interno al genere umano, si concretizza nell’atto della marcia,  l’esecuzione di una danza di morte. Lo spaurito mucchio di uomini in uniforme, interpretati da attori non professionisti sui quali riesce il miracolo di trasportare l’autenticità di un volto nella dimensione più complessa della performance ( quasi un superamento dell’esperienza neorealista perché non si chiede loro di rifare solo un’altra versione di se stessi),  aspetta con consapevolezza varia tra convinzione e rassegnazione l’arrivo del nemico sudista, oppure della morte per sfinimento. Non c’è però il paradosso tragicomico del Godot becketiano o la lenta disgregazione tra realtà e allucinazione, straniamento e fascinazione come per il sottotenente Drogo ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Ed è un tempo anche diverso da quello della contemplazione tarkovskjana, contenuta in quel flusso sovraesposto di memoria e presente, la compresenza tra onirismo interiore ( la sublimazione della perdita) e occorrenza esterna (l’esilio, la guerra).

Si potrebbe dire che c’è una risonanza con la scarna essenzialità del gesto reiterato e rituale del cinema di Béla Tarr, con un’interazione aperta-chiusa (in)contro gli elementi naturali e animali; il tentativo, mancato o rimandato, di fondare una nuova etica delle relazioni, una nuova forma dello stare nel mondo. Le immagini mantengono la tensione realista della presa diretta, la forza espressiva non di un avvenimento illustrato di un qualche manuale storico o ritaglio enciclopedico, ma della vita che ci riguarda tutti anche e soprattutto nell’esperienza della visione. Quel realismo cosi sensoriale delle terre innevate, delle facce rugose o imberbi del sempre più sbandato plotone intergenerazionale, assume mano a mano, in uso sempre più serrato di close up, la pregnanza e la presa di una soggettiva liberà indiretta che assorbe e restituisce gli umori, le emozioni a fior di pelle, le riflessioni ad alta voce. Quando gli altri, gli avversari, i nemici arrivano non si presentano con dei tratti delineati e distinti, come se non ci fosse separazione,  sembrano  l’appendice sfocata e senza voce della loro controparte; l’ epifania in carne ed ossa di un incubo, dell’incubo per antonomasia probabilmente, quello di essere costretti a uccidere o a essere uccisi da un soggetto con le nostre stesse caratteristiche, con il quale si condivide il legame profondo di appartenere alla  medesima tragedia, e del quale al massimo è possibile rimuovere i lineamenti adombrati dal sole in controluce, per rendere più tollerabile l’esecuzione radicale di quell’incontro loro malgrado. Nessun tratto di epicità o eroismo, ma neppure di ricattatorio vittimismo o di facile lirismo:  su un piano esistenziale  si afferma l’asciuttezza di un presa di coscienza in progress, con l’incombenza del substrato religioso, l’accettazione del proprio destino nel nome di Dio soprattutto per l’arruolato più giovane della truppa, spogliato mano a mano della rigidità del precetto dogmatico e trasformato, da substrato in sostanza, nella necessità quasi tangibile di una terrena compassione.

Lo sguardo di un altrove che trascende nel fuori campo, quando gli occhi sono attacchi a un momento di immanente bellezza di una natura non indifferente.

In sala dal 16 maggio 2024


I dannati (The Damned) – Regia e sceneggiatura: Roberto Minervini; fotografia: Carlos Alfonso Corral; montaggio: Marie Hélène Dozo; musica: Carlos Alfonso Corral; interpreti: Jeremiah Knupp., René W.Solomon, Cuyler Ballenger, Noah Carlson, Judah Carlson, Tim Carlson  ; produzione: Paolo Benzi per Okta Film, Denise Ping e Roberto Minervini per Pulpa Film, Paolo Del Brocco per Rai Cinema ; durata: 89′ minuti; origine: Italia/Usa/Belgio, 2024; distribuzione: Lucky Red.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *