Festa del cinema di Roma: L’era d’oro di Camilla Iannetti (Alice nella città – Panorama Italia Concorso)

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Lucy, Danny e Roberta sono tre donne che condividono una vita attraversata dalla continua ridefinizione e ricollocazione di affetti, spazi, relazioni e soggettività. Il dato biografico ci dice che Roberta è la madre di Lucy e Danny, ma il loro rapporto non è stabilito dalla linearità di una discendenza generazionale, le età anagrafiche non corrispondono per forza a una posizione da occupare all’ interno di questa triade vitalmente anarchica. L’era d’oro, fluviale e strabordante esordio di Camilla Iannetti nel lungometraggio, immerge dunque la suggestione dell’assolutismo quasi archetipico richiamato nel titolo nella concretezza vivida e livida in particolare di Lucy, la figlia più grande, colta nel prologo fibrillante appena precedente al parto.

Una situazione comune a tante donne, che in questo caso non ha i bordi rassicuranti di un contenitore famigliare tradizionalmente concepito e tramandato: lei si trova a Londra a vivere di sussidi, il compagno di origine gambiana è andato a cercare lavoro all’estero, e c’è un’ atmosfera costante di precarietà e di mobilitazione da un luogo all’altro, incluse le tensioni in corso tra Lucy e Roberta che si contrappongono su problema di cosa offrire sostanzialmente e materialmente al bambino in arrivo e, per la ragazza, come poter continuare il proprio percorso di studi universitari. La concitazione piena di desiderio e di urti, durante la quale Lucy alterata e stressata arriva a porre un divieto alla presenza di Roberta in sala parto, che per spirito di contraddizione rafforza il senso del loro legame e dell’ immagine immediatamente successiva della neo nonna con in braccio la bambina chiamata in senso antinomico Futura, in un contesto prevalentemente declinato al qui ed ora, è accolta con epidermica aderenza ai volti e alle voci; gli scavalcamenti degli usualmente formali e calibrati campi-controcampi, restituiscono  immediatamente l’ avvolgente dimensione tridimensionale dei personaggi dentro le stanze che abitano.

Si tratta anche di un posizionamento dello sguardo, questione cruciale per un cinema fuori dalle catalogazioni classiche di documentario e finzione, ibridato tra realtà e rappresentazione, che Iannetti prende senza esitazioni o reticenze, e mantiene fino alla fine, pur non celando l’ elaborazione di una struttura temporale, una digressione tra passato e presente rispetto all’ immanenza del flusso, improntata attraverso un finissimo lavoro di montaggio. La regista segue i movimenti di questa piccola carovana femminile, gli andirivieni talvolta senza coordinate e riferimenti tra l’Inghilterra e l’ Italia, nello specifico la Palermo vociferante e luminosamente calda dei vicoli e dei rioni, con la scelta di non dare spiegazioni, informazioni troppo esplicative o dettagliate sul perché di uno spostamento o dell’ altro. Quello che viene cercato di veicolare sono le sensazioni e il sentire di queste donne che rifiutano radicalmente, ma non in modo programmatico, di essere classificate finanche dal Welfare di matrice anglosassone, incapace di comprendere e di mettere insieme tra i cavilli di una rigida burocrazia le necessità primarie di una condizione di quasi indigenza e parallelamente l’ aspirazione, che sopravvive in Lucy, di studiare e di esprimersi anche attraverso il recupero di un linguaggio creativo. Il materiale di repertorio, introdotto non come elemento di un’ epoca aurea, parafrasando il titolo, ma in quanto pulsione mai sopita , riguarda la prima giovinezza di Lucy che è stata una cantante, una danzatrice, un’artista nell’ accezione più libera e liberatoria, in contatto non mediato o filtrato con il substrato di emozioni e pensieri che ne fanno ora un’ umanissima, densa presenza sullo schermo. Il suo stesso aspetto è cambiato nella transizione in dissolvenza tra un momento di vita e l’ altro, proprio a testimoniare un processo di incarnazione del cambiamento, del quale la gravidanza e la maternità sono una fase, un passaggio, un’ ulteriore trasformazione delle forme, delle emozioni e dei pensieri. E nel fluire delle plurime e diverse manifestazioni della maternità, Roberta dal canto suo, fin dalle scelte che ha compiuto e che intuiamo alternative rispetto alle imposizioni di una società etero normata – due figlie avute da due uomini diversi, un compagno anche lui creativo performer che rimane più in disparte (ma c’è un momento fotografico molto toccante in cui rievocano la loro convivenza che andava di pari passo con la sperimentazione artistica) è colei che non perde mai il fuoco centrale dei legami, senza nascondere contraddizioni, approssimazioni, avventatezze. La messa in pratica della ricerca forse scomposta di un luogo chiamato casa, contro la tendenza più idealista e romantica di Lucy, attivata anche dalla memoria come ritorno fisico e tangibile all’ abitazione di provenienza. Tutta la parte della preparazione per il come back a Palermo è così collegata proprio alla donna che si reca sulla soglia della sua prima casa londinese dove ha vissuto, in un susseguirsi di chiusure e di inizi.

Traiettorie intrecciate che risuonano con un altro racconto di andate e ritorni tra documento e rappresentazione, Sognavo le nuvole colorate (2008) di Mario Balsamo: tutt’ altra storia, narrativamente parlando, quella di un ragazzo emigrato clandestinamente che ripercorre al contrario il traumatico viaggio dall’ Italia all’ Albania; ma che esprime lo stesso spaesamento, anche qui due lingue e due culture, e la medesima volontà di elaborare e trasfigurare con l’arte (nel film di Balsamo l’archivio sono le immagini di un laboratorio teatrale in cui il protagonista ha messo in scena la sua odissea) la ferita generata da un’ inquietudine e un’ insoddisfazione immerse nel liquido amniotico di un’ insaziabile brama di vivere.

Così in L’era d’oro non c’ è una genealogia verticale, esplicativa e consequenziale, ma una circolarità di gesti energici e tremanti tentativi, che non escludono l’ inciampo di un corto circuito: uno strappo a cui a un certo punto da voce e respiro la figura di Danny, la figlia e sorella minore, che chiede alle adulte, talvolta egoticamente perse in un ipercinetico e invadente peregrinare di cambiamenti, di vedere e di rispettare il suo quieto confine nei confronti del caos che la circonda. A tratti, in alcuni segmenti evocativi, sembra di rincontrare il femmineo trittico viscerale di Misericordia, opera ruvida e intrisa di delicata pietas diretta nel 2023 da Emma Dante, in cui la maternità, quella di relazione e di cura prima che quella di sangue, non è funzionale o a servizio ma accesso ad un bagaglio di esperienze e di possibili visioni di un’altra se stessa. Una restituzione reciproca che si sono concesse Roberta e Lucy e che cominciano a scambiarsi, nella formulazione di un canoro alfabeto comune, Lucy e Futura. Un invito che assomiglia al verso di quella famosa canzone di Lucio Dalla, che si chiamava proprio Futura. Aspettiamo senza avere paura, domani…


L’era d’oro – Regia, sceneggiatura e fotografia: Camilla Ianetti; montaggio: Valentina Grossi; interpreti: Lucette Gorst, Roberta Baldoni, Danny Giardina; produzione: Pierfrancesco Li Donni, Daniele Modina, Laura Romano, Valentina Grossi; durata: 97 minuti; origine: Italia, 2024.

 

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