Nottefonda di Giuseppe Miale Di Mauro

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Nottefonda è un noir dove si entra da subito nell’atmosfera densa e atterrita che vuole esplorare, e lo si fa passando per il via del volto livido e intorpidito del suo interprete, Francesco Di Leva. Infatti l’esordiente regista Giuseppe Miale Di Mauro, nell’adattare con Bruno Oliviero e lo stesso Di Leva il proprio romanzo La strada degli Americani (si veda a riguardo la nostra intervista), avvolge immediatamente le immagini di un nero malinconico più che spaventoso, che appartiene allo sguardo del protagonista Ciro. È una Napoli marginale e sotterranea quella raccontata in questo film, nella quale sembra che non esista più l’alba di un giorno dopo; ogni cosa non è più illuminata ma oscurata, anzi obliata. Ciro, scopriamo ben presto, sta attraversando, ma senza realmente elaborarlo, il lutto per la morte della propria amatissima moglie a causa di un’incidente stradale per il quale ci sono un auto e un guidatore responsabili. Si tratta della più atroce, intollerabile eppure imprescindibile delle ossessioni, un misto di desiderio di vendetta e di procrastinazione della ricerca della verità. L’indagine compiuta dal protagonista, accompagnato nel suo perduto peregrinare, dalla vicinanza del figlio Luigi che sembra riportarlo ogni volta alla ragionevolezza e alla lucidità, si rivela ben presto come una maniera per rimanere legato tanto all’idillio domestico venato dalle incomprensioni di ordinarie scene da un matrimonio, quanto al rimpianto di quell’attenzione mancata che avrebbe potuto scongiurare la tragedia. Non è il caso di aggiungere altri dettagli del racconto, proprio perché la notte in questione è una sorta di puzzle psicotico in alternanza tra tenerezza e inquietudine, violenza che potrebbe esplodere attraverso un rancoroso contagio e serrato confronto tra l’affetto coniugale e paterno e il  devozionale amore filiale.

Se per quanto riguarda la struttura narrativa c’è almeno una macroscopica ingenuità, la ricerca maggiormente interessante e feconda si esprime sul piano figurativo, che tiene in bilico la scissione di Ciro; il punto di vista è così interno da far diventare il paesaggio suburbano, con elementi decisamente realistici e riconoscibili, un prolungamento delle proiezioni fantasmatiche del protagonista, un doppio (non) luogo della mente e del cuore  abitato da presenze che sono ombre, seppur animate da pulsioni viscerali e sanguigne. In particolare il personaggio di Carmine, fratello di un amico di famiglia che tenta di restituire a Ciro la regolarità e la motivazione di un lavoro, incarna la cieca rabbia incapace di fare i conti con la perdita marchiata oltretutto  dall’ingiustizia sociale ( il suocero ha tentato di uccidersi dopo essere stato licenziato dal padrone della fabbrica dov’era stato occupato per un’intera esistenza); una trama parallela che si fa anche doppio di una condizione umana sospesa tra istinto di morte e di vita. Al contrario la presenza di Luigi, il ragazzino dallo sguardo acuto e luminoso e la voce roca da scugnizzo (al quale, in un ulteriore gioco di rimandi e specchi, presta il volto Mario, somigliantissimo figlio nella realtà dello stesso Di Leva), diventa la spinta propositiva, calda, giocosa che delimita lo sfasamento realtà/ illusione di Ciro, e il suo conseguente, possibile sfracellarsi in picchiata contro l’ “abbascio” di un dolore sospeso sul cornicione di un terrazzo. Ciro rimane attaccato a quello che resta di se stesso e della sua emanazione nel mondo grazie al suo aggrapparsi  a Luigi, e la regia di Di Mauro  cerca di sciogliere questo nodo, cruciale per la risoluzione del mistero intorno al trauma scatenante, utilizzando la luce in una chiave chiaroscurale che mostra e nasconde, rende silhouette i corpi di una precisa appartenenza antropologica e culturale, e innerva di sangue ed emozioni i segni del disagio. A proposito di contesto e ambientazione, è apprezzabile poi che non ci soffermi su un immaginario da periferia complicata e problematica, con l’irruzione di un’ attualità relegata a facili proposte paratelevisive  di decifrazione sociologica e morbose esposizioni di fatti di cronaca nera. L’oscurità non è un fatto riconducibile al fenomeno criminoso che permea e corrompe la comunità partenopea. La facilità con la quale circolano armi da fuoco o si organizzano incontri clandestini di cani da combattimento non viene spiegata nella prospettiva di un’indagine sulla camorra. Il territorio non viene affrontato con il tarlo logorante di un’ occupazione da parte di una struttura organizzata illegale che lo prosciuga e lo abusa.

Nessuno fa male a nessun altro spinto dall’adesione ad una cattiva causa, non c’è dicotomia tra bene e male. Ciro non può darsi pace perché non può, concretamente, porre rimedio a ciò che è successo, non è in grado di convertire in possibilità un’impotenza avvenuta e acclarata, e non esiste la parte virtuosa a cui convertirsi e per mezzo della quale riscattarsi. All’inizio, e fino a buona parte della conclusione, la meta che quest’uomo spezzato ha scelto è il buco, anch’esso nero, dell’espiazione senza fine e la destinazione che trova è il barlume di una risalita, di un ritorno a casa. L’apparizione molto simbolica di un cane che sembra tenere in bocca l’umanità ,come direbbe Antonio Capuano, si  manifesta come  incipit e chiusura di un cerchio che spezza l’abisso senza fondo delle notti insonni. E la mancanza di sonno indica lo stato di costante sonnambulismo, di cimiteriale annunciazione dietro ad ogni angolo cieco, brusca frenata, sbandata fatale. Una Notte fantasma, citando il titolo di una recente opera di Fulvio Risuleo che presenta molti punti in comune (in primis una trasfigurata relazione padre/figlio e la sospensione dello spazio e del tempo nella decostruzione della periferia cittadina), penalizzata e frenata dalla schematicità di un meccanismo utilizzato fino ai limiti della prevedibilità, ma riscattato comunque dalla forza scenica di Di Leva, dalla sua capacità di sostenere lo sguardo di fronte all ‘ (in)immaginabile sgretolarsi di ogni certezza. Qualche incongruenza e qualche sforzatura sfumano dunque sulle espressioni facciali autentiche ed intense di un guaglione che sembra che stia aspettando veramente il sole.

Presentato in anteprima alla Festa di Roma 2024 (sezione Freestyle)
In sala dal 8 maggio 2025.


Nottefonda  – regia: Giuseppe Miale di Mauro; sceneggiatura: Giuseppe Miale Di Mauro, Bruno Oliviero, Francesco Di Leva dal romanzo “La strada degli Americani” di Giuseppe Miale di Mauro; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio :Cecilia Zanuso; musica: PIvio, Aldo De Scalzi; interpreti: Francesco Di Leva, Mario Di Leva, Adriano Pantaleo, Valeria Colombo, Giuseppe Gaudino, Dora Romano, Chiara Celotto; produzione: Mad Entertainment, Rai Cinema, con il sostegno di Film Commission Regione Campania; origine: Italia, 2024; durata: 92 minuti; distribuzione: Luce Cinecittà.

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