Le onde del destino di Lars von Trier

A distanza di quasi trent’anni della sua prima apparizione sullo schermo cinematografico ( per il sottoscritto la folgorante visione avvenne su quello di una piccola sala della periferia romana), la Bess de Le onde del destino (da oggi in sala per tre giorni nella versione restaurata in 4K) rimane uno dei personaggi femminili più mossi e vibranti di quella che si presagiva come una nuova storia del melodramma; un genere che Lars  von Trier sviscera e analizza fino a riproporne gli archetipi di un classicismo attraversato dalle tensioni immanenti e trascendenti di un mondo post (ideologico, esistenziale, narrativo). Quella di Breaking The Waves, che utilizza il gerundivo di un verbo nel work in progress, indicando tra l’altro un‘azione di rottura e di interferenza nei confronti di un flusso (le onde anche come emanazione di una condizione psichica ed emotiva), è una situazione colta nel rivelarsi della vita e incorniciata nell’assoluto dell’ideale. Bess è il corpo impaziente di una ragazzina quasi donna che vive in una rigida comunità religiosa situata ai margini di una terra di confine nell’hinterland affacciato sul mare della profonda Scozia. Nonostante i precetti, le pressioni e i giudizi di una società che possiede tutti i tratti del peggiore puritanismo calvinista, lei vive nel quotidiano miracolo della spontaneità, e nella spregiudicata messa in atto di una purezza che non riguarda la virtù o l’ascetismo, ma un darsi anima e corpo all’amore come desiderio tangibile e culto praticato nella quotidianità. Jan, l’uomo al quale si dedica fino alle estreme conseguenze del martirio sadomasochistico e mistico, è uno straniero che lavora su una piattaforma petrolifera e che ne segna la perdita di una liminale verginità e l’accensione di un euforico istinto carnale. Il sesso è inizialmente scoperta, gioco, condivisione: il sentimento perturbante che ancora scaturisce dall’assistere agli approcci tra Bess e Jan, a cominciare dal mestruale rosso sull’abito bianco da sposa dopo l’amplesso in bagno nel giorno del matrimonio (come la macchia rossa che inondava lo schermo/letto del primo rapporto tra Claude e Muriel ne Le due inglesi di Truffaut)  sta proprio nel sovrapporsi di una dimensione bambinesca e ingenua con la voluttà totalizzante di una gioia dell’ eros che già include lo spetto mortifero di thanatos.

Così la sessualità si innalza ad un altro livello e per Bess diventa la porta d’accesso che travalica il confine della pelle, e perfino della genitalità, dell’altro e la mette in contatto con il taglio, la ferita, il sanguinamento inflittole e auto inflitto da una fede amoros che deraglia nella manipolazione e nell’isteria. Jan rimane infatti paralizzato in un incidente e per mantenere viva e attiva quantomeno la propria fantasia, costringe  Bess a gettarsi in erotiche avventure occasionali per farsene riferire poi il contenuto, con quegli stessi stupori e tremori della loro perduta alcova. Uno dei fraintendimenti, con tanto di virulento rifiuto e attacco frontale, che suscitò Le onde del destino, è consistito proprio nel rimanere al livello testuale di ciò che Bess faceva e poi riportava a Jan, con la volontà di vedere un’ adesione morbosa e compiaciuta dello sguardo vontrieriano alla trama che aveva tessuto intorno ai suoi due novelli sposi e perduti amanti, senza voler cogliere la stratificazione di una visione innestata su più livelli di realtà. C’è dunque la versione della parola, ovvero il patto che Jan impone a Bess, quello di continuare ad essere legati da un segno erotico amplificato nel crescente coinvolgimento di Bess in situazioni di sangue e violenza, in modo da poter essere raccontato e ascoltato. C’è l’esperienza in presa diretta compiuta in carne e ossa dalla ragazza , rappresentata nella contraddizione in termini di una fenomenologia dogmatica, per cui la  resa sporca e immediata della camera a mano è presa di posizione antagonista e insieme necessità di stare attaccati al corpo martirizzato e degradato del (s)oggetto. C’è l’aspetto di una dichiarata messa in scena, di un istrionismo caricato in dialettica con la disarmante ingenuità : Bess parla infatti con il suo Dio personale, lontano da quello silenzioso e austero della dottrina ufficiale a cui appartiene, in uno scambio ad alta voce durante il quale, cambiando tonalità e volume, interpreta entrambi i personaggi, all’interno di una chiesa palcoscenico di una confessione/confidenza in cadenza di pantomima.

L’introduzione di questi elementi artefatti tocca l’apice nell’annunciata suddivisione capitolo per capitolo, le cui copertine, accompagnate sonoramente da una ballad rock degli anni ’70 ( scelta di sensibilità e non di contesto, in quanto non ci sono dichiarati riferimenti cronologici), sono dei paesaggi digitalmente ritoccati, in esplicita disobbedienza delle regole di essenzialità e di spogliamento estetico dell’immagine da trucchi e filtri professati nel Dogma 95. Non si trattava altresì di una provocazione lanciata contro per creare delle faziosità e un radicale dissenso o assenso che inevitabilmente ne derivarono. La vicinanza, quasi in una forma di identificazione e proiezione, tra Lars e le sue dilaniate contro eroine, perché diegeticamente percepite come delle reiette ed emarginate nonostante il loro ruolo di percettrici e di premonitrici del disagio e del disastro, porta la sua mdp, prolungamento esterno di un’abissale vista interna ( il senso di colpa e di espiazione religioso appartiene anche alla sua storia autobiografica), a farsi espressione di una lunga soggettiva libera indiretta. Non solo gli umori, i suoni, i percepiti delle realtà espanse  e di quelle prescritte nell’affacciarsi sul e nel ritirarsi dallo spazio e dal tempo di Bess, ma anche le incongruenze della sua instabilità mentale, tra la brutale e scarnificata verità delle torture e l’illusione di un orizzonte paesaggistico scrostato  dal dolore e posizionato in un’intoccabile distanza. Le campane nel cielo di una chiesa a festa che Bess non sentirà mai suonare sono gli sfavillanti numeri danzanti generati dal torpore dei suoni ordinari  per la Selma di Dancer in The dark, il modello di società equa e solidale proposto da Grace contro la meschinità abusante, passiva e aggressiva della comunità fantasmatica ed emblematica di Dogville; la naturalezza del corpo nudo di Justin in panteistica congiunzione con la natura, mentre dall’universo giunge inascoltata la eco della fine del mondo, in Melancholia. Sono tutti gli strumenti, gli espedienti, i tentativi disperati che von Trier ha realizzato per elaborare, anche, il proprio conflitto tra l’attrazione vertiginosa verso il sublime e la precarietà di una sopravvivenza che rimane attaccata alla cima di quell’altezza, guardando in funambolica alternanza verso l’alto della la conquista egoica e verso il basso della perdita del sé.

Preso in un tale tumulto, il sottoscritto ragazzino di quasi trent’anni fa cominciò ad ingaggiare da quel momento un corpo a corpo con il cinema del quale il regista danese è stato, nel bene e nel male, il primo catechizzante cattivo maestro nella sacralità profana della sala; l’impronta tremante e iniziatica di altri sguardi a venire.

In sala il 23-24-25 giugno 2025.


Le onde del destino (Breaking The Waves) Regia e sceneggiatura: Lars von Trier; fotografia: Robby Muller; montaggio: Anders Refn; musiche: Joachim Holbek; interpreti: Emily Watson, Stellan Skarsgard, Katrin Cartlidge, Jean-Marc Barr, Sandra Voe, Udo Kier; produzione: Zentropa Entertainments; origine: Danimarca, 1996; durata: 156’; distribuzione: Movies Inspired.

 

 

 

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