L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni

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Il cinema di Giuseppe Piccioni non si è mai confrontato direttamente con la Storia, ma ha sempre cercato nella contemporaneità il flusso intimista e sospeso dei corto circuiti spazio -temporali tra i suoi personaggi,  spesso un uomo e una donna, in una tensione erotica ed etica tra l’astrattezza  e l’immobilismo di un ideale vagheggiato o intuito e il concreto agito di un moto pulsionale, del desiderio incarnato che lascia un’impronta sulle cose, sulle storie, sui corpi.

Nell’ultimo L’ombra del giorno, lo sguardo opaco e lucido insieme rimane lo stesso, ma si aggiunge l’ambientazione di un prescritto e prescrittivo periodo storico, quello del ventennio fascista, colto nella fase immediatamente antecedente all’entrata dell’Italia in guerra. Punto fermo dell’osservazione, prima che del racconto, in contraddizione con l’idea di viaggio e di movimento presente in molti dei suoi film precedenti (l’ultimo, Questi giorni, era un on the road femminile dei vent’anni sul filo di fragili crisi esistenziali e frementi passaggi di vita) è un ristorante che si affaccia sulla piazza di una città di provincia come Ascoli, ambientazione inusuale per la vicenda, ma legata intimamente e profondamente al regista che ad Ascoli  è nato ed è tornato ora a cercarvi una sua nuova poetica.

L’ “osservatore” (sempre un personaggio maschile), questa volta si chiama Luciano, un reduce della prima guerra mondiale rimasto ferito ad una gamba, anonimo e intristito simpatizzante senza interesse e per convenienza della dittatura mussoliniana che, fuor di metafora, osserva dalla vetrina del suo locale degenerare in restrizioni, intimidazioni e privazioni della libertà con un’apatica e monocorde espressività, lacerato e assorbito da un dolore interiore, rimastogli impresso per aver ucciso (senza averne l’indole) dei soldati nemici quando era militare.

L’entrata in scena, sul quel sempre più chiuso e opprimente palcoscenico di grettezze e viltà, di Anna, apparentemente solo  una ragazza affamata in cerca di lavoro, provoca in Luciano, per il tramite di una passione prima trattenuta e sublimata e poi esplosa insieme a tutte le convenzioni ( il passaggio dal “voi” al “tu”), l’esplosione in mille frammenti di quella realtà ordinata e schematica e la possibilità di far emergere quel groviglio di sentimenti, di dare loro un nome e un senso : paura, dolore, amore , felicità . Anna infatti,  come tutti i personaggi femminili di Piccioni, non  può limitarsi a guardare: ebrea in fuga dalle leggi razziali, è costretta a fare delle scelte, a muoversi e a far muovere quello che le gira intorno. Così faceva Caterina in Fuori dal mondo, nel confronto diretto e senza filtri con la vita, con quel neonato abbandonato che si ritrovava tra le braccia, mettendo in discussione la sua adesione al noviziato e lasciando intuire la possibilità di un’esistenza meno asettica e isolata anche ad Ernesto, presunto padre del bambino e desiderante passivo e rintanato; e ancora più radicale era la tormentata e intensa detenuta in semilibertà di Giulia non esce la sera che spingeva Guido, scrittore in crisi di parole e d ‘ispirazione, ad un “corpo a cuore” con la propria impotenza e indolenza di intellettuale e individuo, trascinandolo scompostamente fino alla soglia di un mare reale e simbolico , fermandosi  a un passo dall’immersione definitiva dentro un mutato stato delle cose.  Sempre in questo film c’era, durante una sequenza onirica , l ‘inquadratura di una donna, quasi una sirena antropomorfa, chiusa dentro una vasca-acquario e ammirata in un’ estasi inerme da Guido.

Questo contrappunto tra un immaginario sommerso e la sua manifestazione fisica e tangibile continua a coesiste ne L’ombra del giorno, seppur in una forma diversa, smorzato nei colori spenti  di un regime che non lasciava spazio ne alla riflessione ne al sogno. C’è una scena, in particolare, che segna questo spartiacque tra la dimensione privata e quella pubblica, il cambio di prospettiva  senza il filtro di un vetro appannato  o di una propaganda passivamente assorbita: Amelia, in superficie frivola e compiacente soubrette teatrale e in sostanza già appassita e abusata dalla violenza dei camerati, chiede ad Anna,  insofferente e indignata dal crescendo di abusi e soprusi, di intonare insieme a lei una canzone per intrattenere i laidi gerarchi fascisti durante una cena al ristorante di Luciano. Ecco, la sibilata e dolente “Parlami d’amore Mariù” che ne viene fuori,  è anche l’incontro tra un prima e un dopo di un periodo che riguarda la Storia di tutti e la storia di pochi: ci sono infatti la donna che Luciano ha amato in un cristallizzato passato  e che poi ha trovato distratta e distante al ritorno dalla guerra, e  quella che sta amando in un convulso qui e ora, con corpo e cuore, ragione e sentimento; un momento  in cui un’ innocua canzonetta popolare, spogliata della sua retorica, può diventare un contro manifesto di denuncia, umiliazione e vergogna.

Una certa raffinatezza di scrittura cinematografica, elemento di riconoscibilità per  una personalità autoriale toccata talvolta dalla grazia, riscatta alcuni passaggi narrativi più convenzionali e una regia che cede il passo ad un andamento televisivo, con la lunga durata più adatta  a uno sceneggiato che alle esigenze di un Kammerspiel, come lo ha definito il regista (aggiungeremo concentrico e concentrato, visto il passaggio piazza-ristorante-cantina). Ed essendo il cinema di Piccioni fatto anche di parole e di attori, non si possono ignorare le prestazioni di Riccardo Scamarcio, la cui fissità in questo caso rende bene il contrasto con le accelerazioni di quello che accade e scorre davanti agli occhi enormi e spalancati di Luciano, e soprattutto Benedetta Porcaioli: il modo in cui equilibra certi impulsi da eroina battagliera e protofemminista (forse un po’ troppo contaminata da suggestioni e riflessioni contemporanee per essere completamente credibile come ragazza di quel tempo) , con l’ambiguità di una seduzione giocata prima per spirito di sopravvivenza e poi per autentica passione ,  ne fanno un’interprete carismatica e versatile per molti altri sguardi sulle donne, in un cinema italiano asfittico da questo punto di vista e dove proprio Piccioni si è sempre distinto per varietà e complessità.

L’alchimia tra i due interpreti, densa e palpabile, è d’altronde più convincente quando i dialoghi un po’ ovvi e prevedibili lasciano spazio ai gesti e ai movimenti , come quando Anna, durante una gita in una casa in campagna, esegue un danza innocente e maliziosa davanti a Luciano, sfuggendogli poi da dietro una finestra ancora una volta appannata. Il bisogno di rincorrersi anche prima di vedersi chiaramente, senza potersi toccare se non, di nuovo, solo un attimo prima di separarsi. Il senso dello sguardo fragile e un po’ incerto di Giuseppe Piccioni che non rinuncia però, anche nell’addio di un malinconico mare d’inverno, a un sussulto di sdegno e di ribellione:  Luciano seppellisce gli stemmi di riconoscimento dei camerati, utilizzati per fingersi uno di loro e favorire la fuga di Anna, sotto la sabbia non ancora rovente.

Quasi un prologo a posteriori di quella che sarebbe stata da lì o poco un’ Estate violenta  (melò ben più fiammeggiante di Valerio Zurlini sull’educazione sentimentale e politica di un giovane borghese all’indomani della caduta di Mussolini) e che vorremo tornasse ad essere una stagione del nostro cinema.

In sala dal  24 febbraio


Cast & Credits

L’ombra del giorno – Regia: Giuseppe Piccioni; sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaioli, Lino Musella, Wael Sersoub, Vincenzo Nemolato,Valeria Bilello, Sandra Ceccarelli, Antonio Salines, Costantino Seghi; produzione: Lebowski, Rai Cinema; origine: Italia 2022; durata: 125′; distribuzione: 01 Distribuition

 

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