Se n’è andato Stefano Benni, e con lui una delle voci più libere, inventive e corrosive della letteratura italiana contemporanea. Ironico come uno stand-up comedian, colto come un grecista, visionario come un autore di fantascienza e malinconico come un poeta degli anni ’30, Benni è stato tutto questo insieme, e molto di più. Il suo stile, impossibile da incasellare, ha lasciato un segno profondo su intere generazioni di lettori.
Classe 1947, bolognese d’adozione e bastian contrario per vocazione, Benni esordì nel giornalismo d’inchiesta – lavorando con Panorama, L’Espresso, La Repubblica – ma è con la narrativa che ha trovato la forma espressiva perfetta per la sua visione del mondo: un teatro surreale dove il grottesco diventa verità e il paradosso diventa denuncia.
La risata come strumento politico
La sua satira era affilata, ma mai moralista. Bar Sport (1976) è diventato un cult generazionale: più che un libro, un dizionario comico dell’Italia da bancone, con personaggi entrati nell’immaginario collettivo (l’Uomo Cattivo, il Tecnico, l’Uomo da Statistiche…). Ma Benni non si è fermato lì. Romanzi come Baol, Terra!, Saltatempo, Margherita Dolcevita e Achille piè veloce hanno ampliato il suo universo, popolato di creature fantastiche, dittatori ridicoli, robot emotivi, bambini più saggi degli adulti. Diceva spesso:
“Se vuoi capire il potere, non guardare i politici: guarda i comici, gli idioti e i matti.”
E lui sapeva essere tutte e tre le cose – a comando – per smascherare le ipocrisie di una società sempre più anestetizzata.
Una modernità silenziosa
Nonostante il linguaggio giocoso e i suoi infiniti giochi di parole, Benni era un autore radicalmente moderno, anche nei temi: l’ecologia, il consumismo, la tecnologia come perdita di umanità, la scuola distrutta dalla burocrazia e dalla superficialità.
In Saltatempo, forse il suo romanzo più completo, scriveva: “Io sono un essere transitorio, mi dispiace per voi. Vengo da un’epoca in cui si facevano sogni collettivi.”
Una frase che sembra scritta oggi, e che racchiude il disincanto con cui ha sempre osservato le trasformazioni del Paese.
Teatro, poesia, e un rifugio chiamato Appennino
Benni fu anche uomo di teatro: scrisse monologhi per Angela Finocchiaro, Bebo Storti, e soprattutto collaborò con Dario Fo, con cui condivideva il gusto per la satira popolare. I suoi testi teatrali (Misterioso, Le Beatrici, Ci manca Totò) erano performance linguistiche, piene di ritmo, ironia e pietà.
Amava profondamente i poeti (Neruda, Prévert, Hikmet) e a tratti fu poeta egli stesso. Nella raccolta Cari mostri, scrive: “Il tempo è un animale che ci guarda dormire.”
