Allelujah – Un ospedale in rivolta di Richard Eyre

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Allelujah – un ospedale in rivolta  si presenta inizialmente come una di quelle commedie corali britanniche con uno sfondo di denuncia sociale (vengono in mente in ordine sparso Grazie, signora Thacher di Mark Herman e We want sex di Nigel Cole), salvo poi rivelare digressioni più cupe e meno rassicuranti, e sgretolare la rassicurante percezione che fino a quel momento si era avuta dei personaggi e del loro relazionarsi, al centro di questa trasposizione cinematografica: il testo in questione è infatti una pièce del caustico drammaturgo inglese Alan Bennet (La cerimonia del messaggio, La pazzia di Re Giorgio) che affronta di petto la condizione del sistema sanitario pubblico britannico, al  collasso per le scelte neoliberiste e privatiste dei governi conservatori che si sono succeduti. Nell’occhio del ciclone di questo smantellamento implacabile di thacheriana prassi e memoria c’è un piccolo ospedale, il Beth, che ospita un centro geriatrico d’eccellenza, con una particolare cura all’aspetto relazionale e comunicativo nei confronti dei suoi fragili e maturi pazienti; un livello qualitativamente alto di accudimento, possibile grazie all’umanità e all’efficienza del personale medico e infermieristico, nel quale spiccano l’idealista e sensibile Dr. Valentine e l’esperta, seppur distaccata, caporeparto Alma Gilpin.

C’è poi il controcampo dei soggetti di cui si prendono carico, uomini e donne in età molto avanzata, per i quali quel luogo è il transito temporaneo verso la guarigione da una malattia o potrebbe diventare quello del definitivo trapasso. Tutte queste riflessione non interessano al consulente del ministro della salute, venuto a posare, tra sarcasmo e indifferenza, la pietra tombale su una pratica ospedaliera giudicata costosa, non funzionale, superflua. Per di più il Beth, dove  i vari settori hanno i nomi di grandi interpreti della musica pop degli anni ’60 come Dusty Springfield e Shirley Bassey, organizza un’attività di musico-terapia che trasforma quel gruppo di essere umani incastrati sulla soglia tra la morte e la vita in un luminoso e partecipato coro. La messa in scena di Richard Eyre, il cui cinema , da Iris-un amore vero a Diario di uno scandalo, ha  sempre servito la parola e gli straordinari attori che la portavano, mantiene la sua impronta sostanziale di racconto, descrivendo in una maniera crescentemente  vivida e segnante lo scenario chiuso dell’ospedale e lo sviluppo dei caratteri, con la claustrofobia concepita non solo nell’effettiva e quasi esclusiva ambientazione tra le pareti di stanze, padiglioni e uffici, ma anche come uno stato mentale formato e condizionato da tanti aspetti: l’indolente esecuzione delle proprie mansioni quotidiane per Alma, lo slancio e l’utopia di Valentine che gli impediscono però  di vedere  le contraddizioni di quel posto di lavoro a cui è tanto dedito, la strumentalità e l’opportunismo del giovane politicante rampante Colin, costretto a rivedere posizioni e sentimenti quando sarà il padre, incallito e cocciuto labourista dall’indole romantica e dall’attaccamento al passato, a fare i conti con la propria salute. Da eccellente scrittore Bennet sfonderà queste barriere percettivi e mentali con un coup de theatre tragico, che però passerà attraverso l’innocenza dello sguardo, pur filtrato dall’occhio meccanico di un iPad,  di una delle pazienti (interpretata con un smarrimento dolce dalla strepitosa Dame Judi Dench, attrice feticcio di Eyre). L’impianto critico e polemico contro la gestione della “cosa” pubblica non trova infatti una facile sponda nell’happening di rivolta e anarchica, collettiva allegria che ci si potrebbe aspettare.

Il malfunzionamento del sistema ha contagiato da dentro, dai suoi stessi lavoratori ed emissari, il senso stesso dell’atto del curare, offuscandone le prospettive e gli scopi, gli intenti e le conseguenze. Il titolo diventa così l’ironico richiamo ad una beatitudine laica, rappresentata dalle lezioni di canto e da un paio di toccanti scene di ballo, che contraddice il tono di sottrazione e cupezza con la quale ogni elemento viene progressivamente dismesso, incluso l’afflato ottimista di Valentine, che nell’appendice Covid (il film risale al 2023 e si presume girato prima, ancora in piena pandemia) si trasforma lividamente in un disperato atto di resistenza contro lo stato delle cose. Alla sublimazione sentimentale della memoria, non segue una carezza o una consolazione ma uno schiaffo e un sussulto, e questo, drammaturgicamente parlando, è sicuramente un punto di forza della scrittura di Bennett. Nel passaggio dalla lettera allo sguardo si ha però la sensazione che si perda qualcosa, che ci sia un impoverimento rispetto alle potenzialità del copione, uno svolgimento piuttosto inerme con qualche caduta ai limite del macchiettistico (i due figli che se la prendono con l’ospedale perché la madre è morta “troppo presto”, così da non potergli evitare il pagamento delle tasse di successione della casa che le hanno estorto come eredità); tra l’illustrazione ben realizzata e l’affondo critico e polemico, tra un canto di intrattenimento e uno di protesta, c’è una distanza non proprio colmata o ovviata con soluzioni originali e incisive.

Ci sono comunque delle scene belle e inattese come quella in cui Colin, sulla strada del ripensamento e del rimorso di coscienza, dialoga nell’ingresso esterno dell’ospedale con il ragazzino insofferente e un po’ ottuso, assunto come inserviente tirocinante; gli chiede di fare un giro sullo sua bicicletta e gli suggerisce di andare fuori, a Londra, lontano da quella provincia asfissiante (siamo nello Yorkshire), a prendersi il meglio…in quel momento non c’è pero l’atteggiamento predatorio del manager spregiudicato che suggerisce un progetto o una carriera, ma l’invito al movimento vitale e pulsionale verso la città a scoprire chi si è e chi e cosa si vuole ( il desiderio è sempre motore di cambiamenti e spiazzamenti sia in Bennett che in Eyre). Più attesi, per quanto sempre benvenuti, i pezzi di bravura degli attori britannici, in particolare i grandi “vecchi”: la citata Dench, Derek Jacobi che fa un delizioso poeta e filosofo naif, David Bradley nel ruolo del padre di Colin, volto roccioso e impenetrabile pieno di soavi sfumature.

Lo spettacolo che possiamo meglio aspettarci dall’Inghilterra, senza comunque perdere lo spazio per un indignazione che ha le sue radici nella secchezza militante e talvolta schematica di Ken Loach, mantenendone in parte lo spirito e tradendolo sul campo minato della retorica e del monologo ad effetto. Come il  monito finale che abbatte la quarta parete dello schermo, e, simbolicamente, le pareti di ogni edificio: anche quando non ci sarà più nessuna terra da difendere, la libertà avrà sempre il corpo, la mente e il cuore di un medico in cui risiedere e germogliare.

In sala dal 21 agosto 2025.


Allelujah – un ospedale in rivolta  (Allelujah) – Regia: Richard Eye; sceneggiatura: Heidi Thomas dalla pièce teatrale omonima di Alan Bennett; fotografia: Ben Smithard; montaggio: John Wilson; musica: George Fenton; interpreti: Jennifer Saunders, Bally Gill, Russell Tovey, David Bradley, Derek Jacobi, Judi Dench, Eileen Davies; produzione: Pathé, BBC Films, Ingenious Media, DJ Films, Redstart Productions; origine: Regno Unito, 2023; durata: 99 minuti; distribuzione: Unicorn

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