Partiamo da una doppia premessa. Sembra una sciocchezza da dire ma ci sembra che sia molto più semplice realizzare un buon documentario rispetto ad un film a soggetto. Una piccola controprova: il fatto, per esempio, che arrivati quasi alla metà del Concorso berlinese, le opere più interessanti sino ad ora siano state proprio di tale tipologia: Dahomey di Mati Diop e appunto Architecton che andiamo ora a recensire.
Seconda notazione invece di tipo storico: il grande prototipo del film-saggio sinfonico è stato nel 1927 Berlin – Die Sinfonie der Großstadt di Walter Ruttmann a cui si avvicina strutturalmente il lavoro di Victor Kossakovsky classe 1961, nato nella ex Leningrado, in quella che oggi è tornata a chiamarsi San Pietroburgo (ma risiede, se non ci sbagliamo, a Berlino). Grande similarità dunque stilistica e concettuale, anche se Architecton non ha per soggetto fotografare l’anima di una metropoli come nel lontano caso di Ruttmann ma discute, invece, un tema di stringente attualità come quella della sopravvivenza ambientale. L’idea di partenza è quella di costruire come in una partitura musicale una sinfonia di immagini che negli anni Venti del secolo breve era possibile – in assenza del sonoro – solo in stretto rapporto ritmico tra le immagini documentarie stesse (anche se poi accompagnate esternamente da un’orchestra o un pianoforte), oggi invece tale rapporto intertestuale si è ovviamente arricchito della dialettica con colonna musicale, dei suoni e rumori. Cosa che realizza magistralmente Kossakovsky avvalendosi della partitura in gran parte elettronica di Evgueni Galperine per proporci una appassionante meditazione, una riflessione, insieme epica e poetica, sul futuro della proposta architettonica con tutte le sue conseguenze che ha sulla nostra sopravvivenza.
Come aveva già fatto, forse, con forza intuitiva ancora maggiore, nello straordinario Gunda (2020), anche in questo caso il regista russo si pone l’obbiettivo di ripensare la posizione dell’essere umano all’interno della natura che lo accoglie per capirne il destino. Nel film precedente ciò avveniva confrontandosi con gli animali (la scrofa Gunda, appunto, del titolo), qui invece l’antinomia centrale sta tra il cemento e la pietra, due modi contrapposti di costruire – l’uno inquinante e deperibile, l’altro naturalmente ecologico e non transeunte.
Introdotto da una citazione dell’Aquilone di Giovanni Pascoli (“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”…), guidato da una sorta di Virgilio, l’architetto ferrarese Michele De Lucchi e da una sua idea di progetto paesaggistico a cerchio, Victor Kossakovsky utilizza tale proposta per ripercorre tra presente e passato l’evoluzione sì ma, al tempo stesso, soprattutto l’involuzione delle civiltà nel passare dei secoli. E così tra immagini che partano dalle recenti distruzioni della guerra in Ucraina (macabramente belle), passando per quelle del febbraio 2023 dello sconvolgente terremoto di magnitudo 7,8 nella Turchia meridionale al confine con la Siria, confrontate con le rovine del tempio di Baalbek in Libano, ecc., il regista russo compone una partitura di straordinarie immagini in cui magistralmente utilizza tutti i mezzi, a disposizione, del repertorio della tecnica cinematografica come droni, movimenti di macchina con panoramiche, inquadrature fisse o frontali, rallenty, ecc.
In una serrata dialettica tra rocce, pietre e detriti o caseggiati distrutti viene proposta allora una caustica riflessione basata sul confronto tra epoche diverse, società più disparate e il loro modo di costruire il proprio habitat. In una delle scene più significative del film, De Lucchi, seguito dalla macchina da presa, va a visitare un reperto archeologico, una rovina di pietra, gelosamente curata da una sorta di semplice custode del luogo, poi si allontana uscendo e contando uno ad uno sino cinquanta passi mentre lo sguardo cinematografico si allarga a mostrare, impietosamente, lo spazio intorno che in panoramica esibisce la bruttura di una città-alveare. Semplice bellezza della pietra e sua eternità contro l’orrore dei caseggiati moderni.
Di questo parla nel film Kossakovsky mostrandoci cumoli di macerie di cemento, monoliti infranti, treni o macchine che lavorano sui disastri causati dalle guerre o dalle calamità naturali (in una sequenza ci è parso di riconoscere anche delle immagini di Gibellina). Requiem tragico sulla grandezza e la follia della nostra specie in rapporto alla natura e al suo ambiente, Architecton è un sommesso, sotterraneo ma efficace grido di protesta su come stiamo distruggendo noi stessi tramite un’architettura poco umana e soprattutto poco rispettosa del pianeta in cui viviamo. È ciò si intende più che bene con i puri strumenti visivi del cinema e francamente l’epilogo dove in quel cerchio di pietre impiantate nel terreno di cui è stata mostrata la costruzione, De Lucchi e Kossakovsky si intrattengono esplicitando il senso del film a parole, ci sembra essere l’unico neo di un’opera per grandi tratti esemplare. Che, quindi, non aveva proprio il bisogno di tale “spiegone” finale.
Architecton – Regia e sceneggiatura: Victor Kossakovsky; fotografia: Ben Bernhard; montaggio: Victor Kossakovsky, Ainara Vera; musica: Evgueni Galperine; interpreti:; produzione: Heino Deckert per Ma.ja.de. Filmproduktions; origine: Germania / Francia / Usa, 2024; durata: 98 minuti.