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Voto
Ci vuole coraggio per essere giovani, e della cieca ebrietà per non accorgersi di esserlo. Ai margini della società quattro ragazzi sanno che il branco può arrivare dove il singolo perisce, soprattutto nei confronti dei nemici più intimi, i genitori. Beautiful Beings, per la regia di Guðmundur Arnar Guðmundsson, è un film violento e intimo. Questi due aggettivi possono convivere per il periodo della vita trattato, l’adolescenza, e per coloro che accompagnano l’individuo in essa, gli amici. E di tutto ciò, per fortuna, non si risparmia nulla, sino all’ultimo cazzotto e carezza.

Baldur (Áskell Einar Pálmason) è un ragazzo bullizzato nella periferia islandese. È piccolo, puzza, si sottomette facilmente, braccato urla come un animale in gabbia, un giorno viene colpito al viso e allora deve indossare una maschera fisica, di plastica. Attraverso quella maschera osserva la propria mano afferrare un coltellino e tagliarsi le vene, questo finché dei ragazzi non gli rubano le sigarette. Sono Addi (Birgir Dagur Bjarkason), Siggi (Snorri Rafn Frímannsson) e Koggi (Viktor Benóný Benediktsson), tre lupi solitari che hanno da tempo capito che la vita è più facile da affrontare fuori casa che dentro; perlomeno, al di fuori dalle quattro mura domestiche non si hanno aspettative alcune sulla cattiveria, nascosta o meno che sia.
Il branco decide di non mangiarsi Balli, di crescerlo con loro, e inizia così un’amicizia di mozziconi, tra randagi per scelta (si legga ‘necessità’). Fughe nelle droghe e lotte tra bande, urla dai tetti di fabbriche e sospiri nei grembi dell’altro, primi baci e ultimi pugni, il tutto all’interno di un mondo che è reale e oltre il reale: in alcuni momenti di chiaro visione Addi intravede i mostri che popolano il nostro mondo e la madre lo avvisa a riguardo: «puoi vedere ma non interferire». Un giorno una chimera fa però ritorno: è il patrigno di Balli, e nella pancia di un mostro un amico non lo si può lasciare.
Guðmundur Arnar Guðmundsson firma un film di brutale realismo con un pizzico di magico. Presenta un mondo dai colori tenui, pallidi, nel quale i giovani, esseri sporchi di cenere, sono i portatori di una luce capace di rischiarare il circondario (almeno fin dove il chiarore può arrivare). Sono queste, le avventure dei quattro imbred (consanguinei), che recano giochi di luce, abbaglianti e striscianti, ad arricchire una fotografia protagonista e mirata alla solennità del piccolo: sono antieroi, e continua è la lotta tra loro minuti titani e l’ambiente che vorrebbe divorarli, almeno quello umano perché quello naturale gli è invece amico.
Il resto delle maestranze fa un passo indietro, opportunamente. La musica si fa solo eco lontana, accenna e si spegne prima che possa acquisire vero corpo, la mdp non cerca protagonismi né inquadrature ricercate, si accontenta di osservare, e la sceneggiatura va di pari passo, registrando dialoghi comuni ma non per questo banali, anzi, giustificati dalla realtà là fuori e dalle azioni avventate che vengono di continuo compiute. Alla fine, si può dire, campeggia un solo elemento: la recitazione dei quattro attori, abili nel dare vita a dei tipi di ragazzi che, sì, tutti noi abbiamo incontrato una volta nella vita, ma anche a creare un’amicizia che pochi potranno vantare perché nata in necessità, per sopravvivere all’apocalisse.
Si è parlato di apocalisse, eppure né di bombe nucleari né di devastazione alcuna si ha visione. Quella a cui si assiste è invero una rovina silente, sì umana ma soprattutto avvenuta nell’umano. I genitori si trascinano, chi è forte si artiglia dove può, chi è debole viene catturato nella presa e non ha forza (volontà) di sfuggirne. Rimangono loro, i giovani, che non conoscono altra lingua che quella imparata e subitaneamente applicata: la violenza. È però aggressività goffa perché non pensata e quindi cieca, proiettata per riflesso condizionato, e in questa tutto si mischia: botte e carezze necessitano di maturità per differenziarsi ed essere poco o tanto (?) saggiamente utilizzate, prima possono davvero essere un tutt’uno. Alla fin fine, è l’esagerata confusione dell’adolescenza.
Beautiful Beings è un’ottima scoperta per riscoprire la bella ferocia dell’amicizia adolescenziale. Crescere è insomma un dramma, e una buona soluzione può essere quella di affrontarlo di petto, un’ottima soluzione quella di spartirsi le ferite. Si proverà pietà per Koggi, Addi, Balli e Siggi, si proverà pure invidia. Rimane comunque una grande verità: in un mondo ridotto all’osso, quello dei mostri, la vendetta può essere o giusta o sbagliata, a ogni modo deve essere privata. Certe cose non si devono fare, e quelle stesse cose si possono e devono fare. Per l’altro, e soprattutto per sé.
Beautiful Beings – regia: Guðmundur Arnar Guðmundsson; sceneggiatura: Guðmundur Arnar Guðmundsson; fotografia: Sturla Brandth Grøvlen; montaggio: Andri Steinn Gudjónsson; scenografia: Hulda Helgadóttir; costumi: Helga Rós V. Hannam; musica: Kristian Eidnes Andersen; interpreti: Birgir Dagur Bjarkason, Áskell Einar Pálmason, Viktor Benóný Benediktsson, Snorri Rafn Frímannsson; produzione: Join Motion Pictures, MOTOR, HOBAB, Film i Västernorrland, Bastide Films, Negativ Film Productions; origine: Islanda, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca; durata: 123’.
