Bellaria Film Festival (8–12 maggio): Patagonia di Simone Bozzelli (Concorso)

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Giovani occhi affamati di vita fissano un altrove, un fuori campo, un cane in gabbia, da liberare. Ora il suo sguardo si poggia su un altro essere umano, con lo stesso desiderio di liberazione, ma questa volta dalla propria condizione di solitudine. La Patagonia è l’utopia, ma nel cinema di Simone Bozzelli dei sogni bisogna diffidare, o meglio, dell’uomo che ti promette un sogno, principio per una nuova prigione da cui doverti poi liberare. Ma cosa c’è fuori da questa prigione? Il giovane Yuri (Andrea Fuorto), un po’ come lo spettatore, forse non lo saprà mai. Abituato all’arida provincia abruzzese da cui mai s’è separato, rimane incantato dai giochi dell’animatore Agostino (Augusto Mario Russi). Ma Agostino non è un clown di Fellini: il suo naso rosso serve per rapire (l’attenzione dei) bambini, i piercing per affascinare le sue possibili prede sessuali. Il trucco, come il gioco, sono artifici di cui bisogna sospettare, mentre la camera a mano rimanendo fedelmente accanto al protagonista sembra essere l’unico soggetto realmente comprensivo.

Il nomade Agostino è per Yuri l’occasione per una fuga. Ma non c’è mai modo di credere alla strada e l’avventura on the road sembra sempre sul punto di schiantarsi fuori strada. La narrazione suggerisce l’utopia solo per stuzzicare la pulsione distopica del moderno spettatore, che gode solo della realizzazione dei peggiori presentimenti. Agostino istiga Yuri, indirizzando il suo sguardo sul proprio corpo, promettendogli una Patagonia a cui neanche lui crede. Nell’immediata ipostatizzazione dello sguardo attraverso il dettaglio degli occhi, Bozzelli realizza un gioco non troppo diverso da quello di Agostino. Il corpo è ridotto a occhi da direzionare, a simboli da recepire. Yuri, animale ingabbiato, dovrà dimostrare ad Agostino di sapersi curare di un animale, del figlio di Agostino, ma è proprio Agostino il primo essere incurante della propria violenza. Patagonia dissemina varianti e al tempo stesso consuma le proprie figure fino a cancellargli ogni volume.

Dirottato in mezzo a un rave, il ragazzo rimasto infante non si riconosce neanche nella fauna deviante del posto. La camera a mano si getta in mezzo alla folla danzereccia ma rimane pur sempre scettica del divertimento. L’instabilità dell’immagine coglie l’irrequietezza e la nevroticità delle pulsioni più immediate. La danza diviene lotta, la lotta di nuovo abbraccio, in un circolo vizioso di illusione e sottomissione da cui Yuri non riuscirà mai a uscire. Lo zoom out del regista chiede una visione panoramica dei rapporti personali, una coscienza maggiore sullo sfruttamento dei sentimenti altrui. Eppure, il percorso per giungere al campo totale è fatto più di sensazionalismo che di astrazione. Un po’ come Favolacce, Patagonia sembra sprofondare nei medesimi equivoci realisti della camera a mano, già prefigurati da Alessandro Cappabianca in un saggio del 1974. Se non si giunge mai all’incidente automobilistico è giusto perché Yuri si ferma un momento prima di passare la strada. Ma la scena in cui Agostino piscia su Yuri ripropone esattamente quel “choc profilmico” del fatto scabroso che avviene sotto gli occhi dello spettatore. Bozzelli, classe 1994, sembra già un autore con una propria idea di mondo e di cinema, ma anche fin troppo chiuso in questa idea per mettersi all’avventura sul set. Ne diventa anzi schiavo fino a trasformare i corpi dei propri protagonisti in silhouette, in marche autoriali.


PatagoniaRegia: Simone Bozzelli; sceneggiatura: Tommaso Favagrossa, Simone Bozzelli; fotografia: Leonardo Mirabilia; montaggio: Christian Marsiglia; scenografia: Mauro Vanzati; musiche: Leone Ciocchetti, Daniele Guerrini; interpreti: Andrea Fuorto, Augusto Mario Russi, Elettra Dallimore Mallaby, Alexander Benigni; produzione: Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa per Wildside, Vision Distribution, Rai Cinema, Sky; origine: Italia, 2023; durata: 110 minuti; distribuzione: Vision Distribution.

 

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