È stato presentato domenica 23 marzo al Festival di Bari nella sezione “Concorso per il cinema italiano”, Fratelli di Culla, il nuovo film di Alessandro Piva che abbiamo qui intervistato.
Domanda: Hai affermato che la curiosità verso la storia del brefotrofio, ossia quell’istituto che accoglieva neonati da madri anonime, è nato dalla vicinanza alla tua casa di famiglia. Che tipo di sensazioni ti trasmetteva a pelle e quali invece erano le curiosità che ti ha suscitato prima del momento della ricerca e dunque della realizzazione del film?
Alessandro Piva: Quell’edificio ha una struttura davvero imponente e la sua pineta aggiungeva un ulteriore elemento di fascino a quel luogo, che io ho visto sfilare davanti ai miei occhi tante volte. Il senso di mistero e la curiosità per la vita precedente di un istituto che evidentemente aveva interrotto le sue attività si sono uniti alla scoperta degli appelli di bambini dell’epoca, che da anni cercano disperatamente di ricostruire le loro origini. Dopo aver intervistato tanti testimoni di quei luoghi, sia le operatrici e le assistenti sociali, che i bambini transitati all’epoca dal brefotrofio, sento di aver ricomposto un tassello importante della storia della mia città e del nostro Paese.
Il docufilm è un puzzle toccante di tutte quelle persone che vorrebbero conoscere la propria madre, alla ricerca delle proprie origini e identità. Chi è in fondo “madre”? Chi partorisce o chi cresce? È una riflessione interessante, vista la società attuale, dove anche l’idea di famiglia si è allargata sempre più.
Quello della maternità biologica è un tema molto sentito nella nostra società. Penso ad esempio alle polemiche legate al cosiddetto “utero in affitto”. Sono emersi quanto mai evidenti, a maggior ragione dopo questo lavoro di ricerca, quei convincimenti di matrice cattolica che hanno permeato la nostra cultura e hanno fortemente condizionato l’approccio alla maternità e il rapporto madre-figlio, influenzando la pubblica morale nel nostro Paese, e portando nel dopoguerra a un numero enorme di abbandoni alla nascita, non più come in passato per questioni di indigenza, ma per questioni morali.

Va peraltro ricordato che molte delle maternità indesiderate che hanno portato al non riconoscimento dei bimbi scaturivano da un rapporto di soggezione familiare e lavorativo subìto dalle donne. Il film ha diverse linee narrative, una delle quali è proprio il mutare della consapevolezza femminile sul proprio ruolo nella società. Fratelli di Culla racconta, parallelamente alla storia del brefotrofio, il mutamento della condizione femminile nella società italiana nella seconda metà del Novecento, quando le lotte femminili sostenute dai partiti principali della sinistra sono riuscite a riportare delle vittorie sostanziali, sia politiche che culturali. Penso alla legge sul divorzio prima e a quella sull’aborto pochi anni dopo: mutamenti di costume che hanno minato la ragione sociale di istituti come il brefotrofio barese, portandoli alla chiusura definitiva in tutto il Paese verso la fine degli anni ‘90.
Ci puoi raccontare come hai lavorato per la raccolta del materiale, anche a livello di tempistiche, e come questa fase si è incrociata con quella della scrittura?
Con pazienza abbiamo rintracciato testimoni che avessero voglia di tirar fuori il loro vissuto, contemporaneamente abbiamo avviato un’attenta selezione dei materiali d’archivio. Il meticoloso lavoro di ricerca è durato molto tempo, però credo sia un doveroso gesto di attenzione che un autore deve riconoscere a chi mette in gioco una parte così fragile e intima della propria esistenza al servizio del racconto sociale. Quindi la stessa costruzione narrativa si è intrecciata con le esigenze dei testimoni, con le scoperte in corso d’opera e circostanze che inevitabilmente si sono avvicendate nell’arco di questi due anni.
Cosa speri di donare al pubblico attraverso questo lavoro e cosa hai maturato dentro di te, come persona, oltre che come autore?
Nel mio percorso artistico questo è un ulteriore tentativo di raccontare la società italiana, al contempo un’occasione per me di approfondimento emotivo su storie umane molto toccanti. Nei miei lavori documentaristici mi è già successo di rincorrere storie importanti – cioè che riguardano una moltitudine di persone e costituiscono quindi un pezzo di storia del nostro Paese – ma allo stesso tempo poco conosciute. Spontaneo accostare questo nuovo progetto a Pasta Nera (2011), il mio documentario che racconta le iniziative di assistenza all’infanzia in difficoltà nel dopoguerra: centomila bambini del Sud più svantaggiato ospitati da famiglie del Centro Nord. Nel caso di Fratelli di Culla parliamo dell’assistenza di Stato all’infanzia non riconosciuta, ma ecco, la vocazione è la stessa: documentare un fenomeno che ha riguardato direttamente o indirettamente milioni di persone, di cui in pochi hanno un’idea precisa.
