Biografilm XXI° Edizione (Bologna, 6-16 giugno 2025): Life After di Reid Davenport (Contemporary Lives)

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Se sei maggiorenne e in grado di prendere decisioni autonome, se sei ammesso ai servizi sanitari pubblici e ti sono state fornite tutte le informazioni necessarie, se hai una malattia o una disabilità grave e incurabile, che non sia di natura mentale, e se il tuo stato di salute è caratterizzato da un declino avanzato e irreversibile delle funzioni vitali; se le sofferenze che provi, fisiche o psicologiche, sono continue, intollerabili e non alleviabili in modi per te accettabili. Ed, in ultimo, se vivi in Canada, puoi fare una richiesta libera e consapevole, senza subire pressioni esterne, del MAID (Medical Assistance in Dying), il procedimento legale per accedere al suicidio assistito, oggetto di dibattito in questo interessante documentario che ne analizza le implicazioni morali ma soprattutto il tipo di pressione psicologica che può scaturire quando gli interessi economici vengono a galla, e la questione si fa più ambigua di come appare in superficie.

Il film, che ha avuto la sua anteprima al Sundance Film Festival, parte dal caso emblematico di Elizabeth Bouvia, una donna affetta da paralisi cerebrale che, nel 1983, dopo un lungo e controverso dibattito legale, si vide negare la possibilità di accedere al suicidio assistito. Decise allora di tentare di porre fine alla propria vita in ambito ospedaliero, rifiutando il cibo, ma venne alimentata forzatamente contro la sua volontà.

L’autore Reid Davenport, anche lui affetto da paralisi cerebrale, parte proprio da questo episodio, ricostruendo le tappe del caso Bouvia per indagare le tensioni tra autonomia individuale e diritti delle persone con disabilità.

Il diritto a morire, in casi di grande sofferenza, dovrebbe essere, a parere di chi scrive, assolutamente inalienabile. Ciò che rende la questione più ambigua, però, è capire fino a che punto, alla persona che fa richiesta di suicidio assistito, sia stata davvero garantita la possibilità di vivere una vita degna di questo nome.
Una cosa è morire in seguito a una scelta consapevole, razionale e profondamente voluta; un’altra è desiderare la morte per disperazione, perché il servizio sanitario nazionale non assicura condizioni esistenziali accettabili. In quel caso, una vita altrimenti desiderabile si trasforma in un peso insostenibile a causa delle sofferenze generate dalle carenze di un sistema che, nei fatti, mostra gravi contraddizioni.

“Puoi fare una richiesta libera e consapevole, senza subire pressioni esterne” ma fino a che punto le leggi sull’assistenza al suicidio riflettono realmente una scelta libera e consapevole? Oppure, invece, rivelano una tendenza a considerare la vita di chi ha una disabilità come meno dignitosa o economicamente meno sostenibile per la società?

Come spesso accade, l’America, (e in questo caso il Canada non fa eccezione), a causa del capitalismo intrinseco radicato nella sua struttura economico-sociale, applica una lente distorta che trasforma in aberrazioni mostruose anche servizi legittimi all’interno di una società moralmente evoluta, come l’assistenza al suicidio. Così vediamo spot televisivi che rappresentano la fine della vita in termini quasi idilliaci, mentre medici arrivano a proporre il suicidio assistito anche in situazioni in cui il paziente non ha espresso alcuna volontà in tal senso.

Non ci è possibile migliorare la qualità della vita di suo marito ma possiamo aiutarvi ad accedere a questo servizio, afferma un dottore, ma prolungarla non equivale a migliorarla? ribatte sconcertata, la moglie di un paziente.

Il regista Reid Davenport si espone in prima persona e non nasconde la propria posizione. Tuttavia, l’aver scelto di utilizzare il caso di Elizabeth Bouvia, una donna che per anni ha chiesto di morire e che forse si era semplicemente rassegnata a vivere, risulta strumentale. Il film ne fa una storia edificante, una parabola con una morale implicita: si vuole convincere che sia stato un bene che Elizabeth sia vissuta ancora a lungo, come dimostrerebbero alcune fotografie che la ritraggono sorridente. Ma la verità è che nessuno, né noi né il regista, può sapere cosa siano stati quegli anni per lei. Di una cosa possiamo essere certi: quando voleva morire, non è stata ascoltata. E non è giusto farne un simbolo di una campagna che intende mettere in guardia dai rischi legati al fine vita.

Proprio questo elemento, su cui il film sembra costruire la sua tesi centrale, appare a nostro avviso utilizzato in modo inappropriato. E’ anche probabile che il nostro sguardo “europeo” fatichi a cogliere appieno quanto la situazione in Canada possa davvero essere sfuggita di mano, ma sicuramente il film spiega molto bene la necessità di una riflessione seria e un dibattito pubblico consapevole sull’argomento.

Per evitare, citando un commento di un’anonimo spettatore, Il rischio che un diritto di morire individuale e autonomo non venga trasformato in un dover morire collettivo.


Life After – Regia: Reid Davenport; fotografia: Amber Fares; montaggio: Don Bernier; musiche: Robert Aiki Aubrey Lowe; produzione: Multitude Films, ITVS; in collaborazione con Ford Foundation, Sundance Institute, Field of Vision; origine: Stati Uniti, 2025; durata: 99 minuti; distribuzione: Multitude Films.

 

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