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Voto
Ci sono alcune esperienze che non è possibile comprendere fino in fondo se non, si perdoni il gioco di parole, esperendole: questo perché sono cosi profondamente e visceralmente intrecciate sul piano personale, espressivo e creativo da non poter essere scisse, analizzate, riportate nel loro rigore e nella loro radicalità, solo dentro l’alveo di una speculazione intellettuale , per quanto attivino riflessioni e rimandino anche ad una forma di pensiero, di modalità di stare al mondo e di affrontare l’arte e la vita. Ewa-The last lesson, il documentario che Andrea Mura e Federico Savonitto hanno dedicato alla performer polacca, una delle ultime testimoni che, con il proprio corpo e la propria voce, ha continuato a portare in giro (soprattutto in Italia, dove vive ormai da 40 anni), attraverso workshop residenziali, tavole rotonde, incontri nelle università, la peculiare visione e la tenace pratica del teatro di Jerzy Grotowski, fa sua e mantiene nell’arco della densissima durata di un’ora il medesimo presupposto; ovvero la volontà di non spiegare o dire troppo, in un seno prettamente informativo/didascalico/contestualizzante, sul “metodo” di lavoro grotowskiano che Ewa propone e condivide con i suoi allievi e le sue allieva, in realtà compagni e compagne di un viaggio che non si è mai interrotto, ma si è continuamente rifondato e trasformato. Solo pochi cartelli indicativi, che offrono informazioni essenziali per conoscere la condizione in vive ed opera questa figura femminile cosi terrena e solida, e al tempo stesso cosi sfuggente e remota. E non è un dettaglio, oppure semplicemente un dato biografico, la sua condizione di esule perenne dalla Polonia schiacciata prima, finanche nelle sue più avanguardistiche e sperimentali manifestazioni teatrali, dalla marzialità del regime comunista (Ewa se ne andò nel 1981) e, in epoca contemporanea, dall’avvento al potere di una democrazia illiberale di estrema destra. Un sentimento di erranza che i registi ricercano filmando in particolare gli spazi di una natura determinata non tanto dalla sua appartenenza alla specifica aerea geografica, ma dal rapporto che gli esseri umani, le persone, gli attori riescono a stabilire con essa. Lontano però da qualsiasi tensione misticheggiante o trascendentale. I corpi sono radicati, con i piedi e con le mani, in una terra che è malleabile, lavorabile, mutabile nel farsi esterna rappresentazione del dolore e delle fragilità degli individui che, riconoscendosi, si fanno comunità. Anzi, più precisamente famiglia, seppur, appunto, una famiglia di esuli, ancora una volta in continua erranza e trasformazione.

Nonostante l’annuncio nel titolo di un inevitabile fine a venire, identificando nell’operato di Ewa l’ultima sessione di un modo di concepire e fare il teatro, il film di Mura e Savonitto coglie l’aspetto fondativo di un rito che non si esaurisce mai, e si ritaglia wendersiamente, fino alla fine del mondo, luoghi e spazi per sopravvivere all’oblio e alla dimenticanza. Al dialogo è lasciato pochissimo spazio, laddove è l’impulso vitale del gesto, la partecipazione collettiva ad un’attività, l’esercizio del suono e della parola che si fanno porte di accesso nei confronti di una realtà percepibile come prossima e quotidiana, con una eco potente di arcaicità e di archetipo. Ewa, fin dagli anni dell’attiva collaborazione con Grotowski, si è fatta portatrice di una tradizione orale che affonda le sue radici nei poemi omerici, recitando a memoria il celebre poema polacco Messer Taddeo di Adam Mickiewicz (pubblicato nel 1834 e considerato l’opera per eccellenza dell’epica polacca in versi).
E proprio la scelta di recitare un testo tanto conosciuto e celebrato dalla cultura e dalla lingua polacche, le consente di oltrepassare i confini della rappresentazione tradizionale di un teatro di impostazione borghese ed accademica, e di agganciarsi al senso profondo delle parole di Grotowksi, riportate con un unico, incisivo filmato di repertorio: ogni elemento superfluo viene azzerato e riportato nell’esecuzione di un dialogo in forma di partitura musicale tra le persone attori e le persone pubblico. E le immagini seguono questa partitura, raccogliendo gli umori, gli slanci, le asprezze e le disillusioni, le utopie e le generosità di Ewa, facendo di essa, della sua memoria viva e vibrante, un veicolo per contaminare e piantare il presente. Da questo punto di vista anche il repertorio, che mostra brevi frammenti del passato in Polonia, non è inserito e utilizzato secondo la consuetudine logorata del flashback. Muovendosi sul filo di un tempo che sembra in continuazione che stia per in accadere, nel passaggio simbolico da un pre-rituale, e dunque pre-storico direttamente ad un post che si aggira intorno ai resti delle credenze e delle ideologie, gli autori attuano una continuità principalmente sonora tra il documento d’epoca e il girato attuale; la voce recitante di Ewa di fronte ad un gruppo di giovani artisti, intellettuali, dissidenti arriva fino al presente di un esilio non riconciliato e non rassegnato. E i video di alcune performance/riti avvenuti nel tempo introducono oppure vengono accolti, come tutto l’apparato visionario di matrice sciamanica che accompagna questo processo, in quanto materia e suggestione per continuare a mette in atto e a performare. Nell’apparente semplicità di questo far vedere e rivelare, si evita il rischio di cadere nell’idealizzazione retorica, nella fascinazione per l’assoluto. Il ridurre all’osso anche le testimonianze di collaboratori e partecipanti, nessun dei quali proteso verso un tono estatico o enfatico, mantiene asciutte e concentrazione, anzi proprio verso la conclusione viene inserito il dubbio, da alcune persone vicine ad Ewa, che quel “cammino verso la vita, cosi come intendeva il teatro Grotowski, possa essere al contrario frainteso in un rifiuto esclusivista e nell’implosione di una settaria ed elitaria cerchia.
Probabilmente sarebbe servito un maggiore tempo per scandagliare le contraddizioni con cui, inevitabilmente, una storia come quella di Ewa Benesz deve fare i conti in una realtà come quella in cui stiamo vivendo. Ma non è una necessità della quale si sente un pressante bisogno, proprio perché il posizionamento preso, e mantenuto, dai due registi va nella direzione di una verticale calata a picco dentro un fitto microcosmo fatto di associazioni e connessioni che dall’intimo passano al collettivo, dal personale al politico. Un sentiero da perlustrare a tentativi, in attesa di una visione più chiara, con il sorgere di un Sol dell’avvenire oppure di un Sole ingannatore.
Ewa -The Last Lesson – Regia: Andrea Mura e Federico Savonitto; fotografia: Andrea Mura, Federico Savonitto, Chiara Andrich; montaggio: Jacopo Quadri, Nicolò Tettamanti; musiche: Francesco De Marco; interpreti: Ewa Benesz, Alfred Buchholz, Barbara Crescimano, Emanuele Contu, Francois Emmanuel, Franco Lorenzoni; produzione: Chiara Andrich, Andrea Mura, Federico Savonitto; origine: Italia, 2025; durata: 105 minuti.
