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Dopo una trentina di partecipazioni a Festival, fra le quali spiccano il Sundance (gennaio 2024) e Berlino (sezione Panorama, pure nel 2024, in febbraio), approda nelle sale italiane – purtroppo a fine stagione – Breve storia di una famiglia, il notevole film di esordio di Lin Jianjie, la cui data di nascita non sono riuscito a rintracciare online. Come ne La città proibita di Gabriele Mainetti, ma secondo modalità di genere totalmente diverse, il film tratta delle devastanti conseguenze originate dalla cosiddetta “politica del figlio unico”, un provvedimento attuato in Cina, poco dopo la scomparsa di Mao e volto, come ben si capisce, a ridurre progressivamente gli abitanti del paese più popoloso del mondo, un provvedimento abbandonato solo da una decina d’anni, una volta raggiunto l’obiettivo della decrescita. Se nel film di Mainetti, la vicenda costituiva il punto di partenza per un revenge movie, scaturito dal legame indissolubile fra due sorelle, una delle quali, per così dire, sovrannumeraria, qui ci muoviamo all’interno di un dramma borghese che sarebbe potuto uscire dall’ingegno di Bergman o di Haneke, o se vogliamo prendere esempi più recenti, anche solo partendo dallo stile estremamente accurato e a tratti algido, dagli stilemi della Berliner Schule.
Tutto nasce da un atto di teppismo da parte di un ragazzo sedicenne, Wei, ai danni di un proprio compagno di studi Shuo. Quasi a mo’ di risarcimento, Shuo viene introdotto nell’universo alto-borghese della famiglia dell’aggressore, composto da un padre, almeno all’inizio silenziosissimo e distante, un professore universitario di biologia (disciplina che il regista conosce molto bene, essendosi laureato in quella materia prima di intraprendere la via del cinema) e la madre, ex hostess e adesso casalinga, che di lavorare non sembra avere proprio bisogno. Da quel momento ha inizio un autentico Kammerspiel, non privo di tratti sadici e thriller, in cui Shuo (proveniente, a quanto sembra, da una famiglia assai più modesta: la madre è morta, il padre è alcolizzato e manesco, ma su questo punto un qualche margine di incertezza resta) viene a “turbare” – ricordate Saltburn? – le dinamiche, a quanto si intuisce, già in partenza non particolarmente funzionanti di padre, madre e figlio, anche perché quest’ultimo non pare minimamente corrispondere alle aspettative dei genitori (ancora una volta, soprattutto del padre) visto che va male a scuola, passa le giornate davanti al computer dedito ai videogiochi e l’unico hobby e probabilmente l’unico vero talento che ha consiste nel tirare di scherma.
Con l’entrata di scena di Shuo tutto cambia e i genitori sembrano invece trovare in quel ragazzino silenzioso, ma risoluto e un po’ misterioso, quella sorta di figlio ideale che, in fondo, andavano cercando, prova ne sia che Shuo è un allievo modello e, non si sa per quali vie, conosce la musica classica, sulla quale dialoga con l’austero ma sempre più coinvolto padre di Wei. Fin quando i genitori non decidono di adottarlo, si capisce bene, con grande scorno del figlio naturale. Sia prima che dopo questa scelta che non viene affatto condivisa con il figlio legittimo (forse l’unica vera caduta, da punto di vista della sceneggiatura, della plausibilità del plot) fra i due ragazzi si innesca un rapporto competitivo e conflittuale, con una deriva a tratti violenta, senza esclusione di colpi e una serie di impennate finali, molto prossime alla tragedia, che non rivelerò.
I principali meriti di questo film calibratissimo sia sul piano dei contenuti che della forma hanno a che vedere con la descrizione di un milieu, quello borghese della Cina, che si ha come la sensazione di non aver mai visto così ben raffigurato, un ambiente segnato da una serie di incapacità comunicative, attribuzioni e rimozioni che ricordano, come già si diceva, un certo cinema europeo riconducibile alla categorie di quello che un tempo si definiva cinema d’essai o cinema d’autore, che adesso viene chiamato art movie, o in senso lievemente spregiativo, cinema da festival. Se è cinema festival, in questo caso lo è nel senso migliore del termine. Del resto è lo stesso regista che un un’intervista rilasciata a Sundance non ha fatto mistero di quali fossero i suoi modelli, e ancor di più, a quale target egli intendesse rivolgersi: “While it is a film featuring a Chinese middle-class family, I had this idea that the film is for an international audience since the very beginning”.
Questa descrizione dell’interno borghese, a un tempo laconica e spietata, viene affiancata, ed è davvero questo il valore aggiunto del film, da una consapevolezza formale, da una capacità di costruire le inquadrature, dei movimenti di macchina, lenti e perfetti, che non può non colpire, tenendo conto che si tratta di un’opera d’esordio. Fra le varie e numerose tecniche risalta l’uso di dissolvenze d’apertura a iride, volte a evidenziare momenti particolarmente significativi nel gioco sistemico dei rapporti impersonali, tecnica alla quale il regista ricorre anche nel riprendere immagini al microscopio che sembrano istituire una connessione fra il mondo delle relazioni organiche e il mondo delle relazioni psichiche primarie (o primitive) alle quali i personaggi inutilmente cercano di sottrarsi.
Nel 2025, a un solo anno di distanza, sempre al “Sundance”, Lin Jianjie ha presentato un altro film, stavolta un cortometraggio, intitolato Hippopotami, il terzo. Non vediamo l’ora di vederlo nuovamente cimentarsi nel lungometraggio, perché tutto lascia pensare che il ragazzo ci sappia fare davvero.
In sala dal 31 luglio 2025.
Jia ting jian shi; regia, sceneggiatura: Lin Jianjie; fotografia: Jiahao Zhang; montaggio: Per P. Kirkegaard; interpreti: Guo Keyu (la madre), Feng Zu (il padre), Lin Muran (Wei), Sun Xilun (Yan Shuo); produzione: Films Du Milieu, First Light Pictures; origine: Cina, Danimarca, Francia, Qatar 2024; durata: 99′; distribuzione: Movies Inspired.
