-
Voto
The Mastermind, l’ultima opera di un’autrice come Kelley Reichardt che sta portando avanti un suo racconto della società americana nel corso del tempo dal punto di vista di individui fuori dalla legalità e dalla norma, ci introduce fin dalle prime, osservative inquadrature in un’atmosfera da cinema degli anni ’70: lo scenario è quello del museo d’arte moderna di una cittadina del Massachusetts, le cui sale sono attraversate in maniera guardinga da un giovane uomo accompagnato dalla sua famiglia. In sottofondo le sottili dissonanze di un commento musicale jazz che annuncia una variazione in quel quadretto familiare da gita della domenica o del sabato mattina. La visita, nonostante la voce squillante e curiosa del figlio più piccolo che ha qualcosa da dire su ogni opera, non ha finalità puramente educative o pedagogiche, ed è un dettaglio a rivelarcelo: James (Josh O’Connor), quello che scopriremo essere il nome di questo flâneur tra le sponde dell’arte astratta, non visto dal dormiente custode, sfila la statuetta raffigurante un soldatino dall’interno di una teca piuttosto incustodita. È un gioco, una prova, una sfida. Negli anni ’70 e in un contesto provinciale, le norme di sicurezza per le opere d’arte erano evidentemente scarne o inesistenti, ci racconta Reichardt, ma non si tratta tanto di rilevare, con un’ ironia che diventerà sempre più marcata, le consuetudini di un’istituzione culturale cittadine. Il focus è sullo sguardo di James che costruisce e organizza mentalmente il piano di un furto di quadri , utilizzando come inconsapevoli complici la moglie e i figli nella funzione di pedine che lo aiutano a delineare meglio le prospettive e i punti di fuga di quello spazio chiuso.
Quella che viene messa in atto, anzi in potenza è la proiezione di un’idea per quanto dissennata, un progetto antagonista di riscatto nei confronti di un microcosmo asfissiante e avulso dai moti di cambiamento e di rivoluzione provenienti dalle tv e dalle radio, specie in ambito universitario, nell’America messa quanto mai a ferro e fuoco. Anche da questo punto vista però, James rimane al latere, decentrato, fuori dalla comunità in rivolta. Figlio dell’alta borghesia piuttosto conservatrice- il padre è un giudice – ha talmente introiettato quel modello individualista di affermazione che non può che esprimerlo e farne la propria realtà , seppur per spirito di contraddizione e con l’atteggiamento di chi ha trovato uno stile di vita alternativo (svelando l’inganno di un falso sé e di una sostanziale e apatica dissociazione dal vero senso delle cose). E per farlo ricorre alla bugia e alla manipolazione, chiedendo in prestito dei soldi alla madre con la scusa di dover avviare una nuova attività. Ancora una volta dunque a Reichardt interessa tracciare la pericolosità di immettere le proprie risorse creative, intellettuali ed emotive nel meccanismo di un arricchimento, proprio per l’attenzione agli oggetti e al denaro, che produce per contrappasso ancora più esclusione, umiliazione, fino alla vera e propria privazione della libertà. James è un personaggio che sarebbe piaciuto probabilmente ad Orson Welles nel suo voler fingersi più grande e più astuto dei mediocri borghesi ai quali di fatto appartiene e che intende fregare, oltretutto alla luce del giorno. Non avrebbe di certo sfigurato tra le figure di truffatori celebri del wellesiano F come Falso, anche se la contraffazione non ha a che fare, in questo caso, con il far passare un’opera d’are non originale per autentica.

La questione, più introspettiva e personale, investe l’identità concepita nella sua più soddisfacente realizzazione attraverso l’effrazione di una regola e di un ordine costituito. Al continuo alternarsi di fascinazione e poi di smascheramento di fronte al vertiginoso confine tra verità e finzione della magistrale messa in scena di Welles, Reichardt sostituisce un tono più laconico e dimesso, concentrato nelle espressioni da loser carismatico di Josh O’Connor (che fa qui una variazione del suo personaggio di ladro tombarolo ne La chimera di Alice Rohrwacher), con la parte centrale della rapina, assieme a un parterre di inaffidabili compari, degna dei Fratelli Coen ( in particolare la sproporzione tra il piano criminoso di partenza e le sue disastrose conseguenze). L’impronta grottesca e paradossale non assume però mai le accelerazioni e le trovate surreali del cinema coeniano, o quanto meno non si carica della stessa estrosità visiva. Se è vero che gli autori di Barton Fink e Fargo cercano di trascinare i loro marginali anti eroi fino al centro dell’inquadratura, rendendoli loro malgrado protagonisti e amplificandone le contraddizioni e le incongruenze, Reichardt mantiene un’opacità e un’evanescenza, una volontà neanche troppo implicita del suo bistratto James di sparire, nascondersi, confondersi nel suo flusso (sarebbe meglio se non fosse quello degli studenti manifestanti sotto attacco dalle manganellate della polizia…). Proprio per questo motivo prevale una sensazione punitiva, quasi mortifera, di dismissione e di ridimensionamento a una faccenda privata delle tensioni più comunitarie e collettive esplose alla fine degli anni ’60. L’implosione e il contenimento di James, incorniciato senza comprenderne fino in fondo il perché dal finestrino della cella mobile di una camionetta della polizia, lascia nel suo allontanarsi la desolazione di una sconfitta da lì a venire.

Le cene con l’arrosto, il purè di patate e i piselli sul piatto, secondo la laica iconografia sociologica della famiglia americana ( già fotografata con lucida precisione nello splendido Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola) diventano in questa maniera il rito-requiem della rivoluzione vista dal salotto, colta nelle sue istanze e inquietudine, ma mal interpretata dalla necessità di un gesto effetto e non di una radicale trasformazione. James tratta infatti i quadri di arte astratta che ha sottratto dal museo alla stregua di comuni oggetti da arredamento, nella scena in cui cerca di posizionarli sulle pareti del proprio soggiorno, al posto di una banale natura morta. Certo, il rappresentare una simile mancanza di orizzonte e di desiderio, con Alana Haim, che fa la moglie, in un quantomai castrante ruolo rispetto a quello interpretato in Licorice Pizza, atterrisce e non permette di provare un sincero e appassionato entusiasmo. Perché va bene il minimalismo alla Raymond Carver, ma ad un certo punto, di fronte a qualsivoglia ritaglio o short cut, si sente il bisogno di un respiro che apra alla grandiosità di una cattedrale.
In Concorso al Festival di Cannes 2025.
In sala dal 30 ottobre 2025.
The Mastermind – Regia, sceneggiatura e montaggio: Kelly Rechardt; fotografia: Christopher Blauvelt; musica: Rob Mazurek; interpreti: Josh O’Connor, Alana Haim, Gaby Hoffmann, John Magaro, Hope Davis, Bill Camp, Rhenzy Feliz, Matthew Maher, Cole Doman, D.J. Stroud, Margot Anderson-Song, Ryan Homchick, Jean Zarzour, Alexis Nichole Neuenschwander, Barry Mulholland, Marc Ross; produzione: MUBI, Filmscience; origine: USA, 2025; durata: 110 minuti; distribuzione: MUBI.
