Cannes a Roma mon amour! (Roma, 7-13 luglio 2025): Indomptables di Thomas N’Gijol

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Fa bene a volte imbattersi in un robusto e lineare film di genere proveniente da una cinematografia come quella africana (seppur filtrata dallo sguardo ibrido di un cineasta nato, cresciuto e formatosi in Francia) della quale arriva ormai poco o niente in Occidente, anche perché questo ci permette di avere una veduta dall’interno sulle condizioni sociali e politiche di paesi che non vengono più rappresentati o raccontati neanche dai reportage televisivi, cosi impegnati a raccontare altre, più evidentemente febbricitanti parti del mondo.  Presentato alla “Quinzaine des Cinéastes”, Indomptables, gli indomabili, diretto e interpretato con quello che una volta, rispetto a questo tipo di racconto, si sarebbe definito un piglio robusto, da Thomas N’Gijol, apre con franchezza uno squarcio sul Camerun contemporaneo: il filo conduttore è l’indagine per l’omicidio di un collega che un commissario di polizia (N’Gijol, appunto) sta compiendo nei quartieri emarginati di Yaoundé afflitti, come le capitali di qualsiasi metropoli occidentale, dal traffico di droga e dalla guerra tra bande.

Ma si tratta appunto di un pretesto per entrare dentro la dimensione privata dell’ispettore Billong, che oltre alle pressioni di una comunità nella quale la violenza, sintomo di malessere, povertà e abbandono da parte delle istituzioni (anche qui non è difficile trovare ricorrenze e risonanze anche semplicemente in alcune zone del nostro Sud), è pronta ad esplodere ad ogni angolo (e non solo in senso figurato), deve gestire ben cinque figli, più una in arrivo, confondendo spesso i due piani per quanto riguarda i metodi adottati; il rigore, la disciplina, il rispetto delle regole per contrastare quel sottosuolo di incultura e miseria in perenne, labile confine tra la vita e la morte, gli fanno completamente sfuggire altre qualità e caratteristiche che dovrebbero emergere nel comportamento di un cittadino e di un padre.

L’empatia e la comprensione, per il reattivo Billong, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, sembrano essere completamente rimosse dal suo linguaggio corporale e verbale. In più di una scena, nel momento in cui entra nel soggiorno di casa o nelle camere della propria, silenziosa e atterrita prole, tutti fanno per alzarsi ed andarsene, quasi a non voler condividere la tensione psichica e fisica che il loro comunque amato genitore si porta dal polveroso e livido esterno fatto di minacce e scontri frontali. Non c’è però nessun giudizio o moralismo, perché il protagonista, anche attraverso dei monologhi camuffati da discorsi alla moglie, che con forza e pazienza lo confronta sulle sue contraddizioni, e agli stessi colleghi, riconosce la problematicità delle proprie pratiche relazionali, sia personali che professionali. C’è dunque il rimorso e il contrappasso nel momento in cui si trova di fatto, assieme a altri poliziotti, a interrogare con prove generiche un sospettato, utilizzando torture e mortificazioni che sembrano transitate direttamente dall’epoca delle dittature sanguinarie e delle guerre civili. E il montaggio mette in parallelo l’aggressività che Billong esprime nei confronti del figlio più grande, tacciato semplicemente di aver usato un linguaggio scurrile a scuola, davanti peraltro all’allibito dirigente scolastico che lo ha convocato per un confronto dialettico e non per una punizione esemplare. Il livello di alienazione e di paranoia è tale da far perdere il senso della misura nelle parole e nelle azioni  e c’è il continuo appello a sviluppare una coscienza critica, una distanza rispetto a delle modalità che, fin dalla base, rischiano di diventare sistematiche, implicite, scontate.

L’altro aspetto, quello esteriore e superficiale, di questa progressivo disfacimento del tessuto relazionale e sociale è individuato da Billong nell’ingerenza di una cultura consumistica che passa dagli schermi dei tv e degli i-phone, e che spinge le generazioni più giovani a compromettere qualsiasi valore o etica per appropriarsi di quegli status symbol calati da un benessere illusorio e amorfo, e non sostanziale. L’immagine forte del ragazzo appartenente a una band che muore abbandonato nella squallida e anonima sala di un ospedale che non ha i soldi per offrire una degenza dignitosa, fa il palio con le baraccopoli di maschi culturisti che difendono il loro diritto ad acquistare un generatore di energia per alimentare la tv via cavo pirata. Quest’ultima sequenza potrebbe rappresentare a dire il vero  una caduta moralista, che rinuncia a capire forme di condizionamento di evidente carattere coloniale, com’ è stato per lungo tempo proprio il Camerun, la cui lingua ufficiale, ma di superficie, è rimasta il francese ( al contrario di quella periferica, parlata nei villaggi e all’ interno delle tribù). N’Gijol risulta così essere un po’ più comprensivo, per non dire assolutorio, verso il suo poliziotto duro e inflessibile a causa delle circostanze, nel confronto con alcuni personaggi secondari al contrario  stigmatizzati nel loro egoismo e richiamati alle loro responsabilità, a mantenere la schiena dritta in una realtà così indomabile, tirata da una parte e dall’altra da immediati e indotti bisogni di soddisfacimento del proprio piacere.

Di materia viva sulla quale riflettere c’è ne dunque tanta, anche perché lo spunto di partenza è un documentario, Un Crime a Abidjan di Mosco Levi Boucault, e l’immediatezza e secchezza di quel linguaggio, che evita eccessi sentimentali e melodrammatici finanche nelle scene famigliari, permea la regia fin dal ritmo (la durata è di appena 81’ ).  Ed è tutt’altro che posticcio o di tendenza il neanche troppo sottinteso discorso sull’impronta patriarcale della società camerunense,  messa però al muro dalla presenza di due personaggi femminili che lasciano il segno di una resistenza: la già citata moglie di Billong, tutt’altro che passiva o succube davanti agli improperi di frustrazione e ottusità del consorte, e soprattutto Adeline, la figlia avuta da una precedente relazione e rinnegata per il suo comportamento emancipato e libero (gioca a calcio, forse ama le donne). E la sortita finale di tutta la compagnia di maschi alla partita della ragazza, è l’espressione di un riconoscimento che per la generazione dei padri non può passare ancora per un abbraccio, ma può scorrere nel campo/controcampo di uno sguardo a distanza ravvicinata. Un colpo al cuore non più mortale, ma che trasmette l’affondo di una richiesta tutta maschile. Mercy, Mercy me come cantava il cantante preferito di Billong, Marvin Gaye. Che tra l’altro proprio dal padre venne ucciso.


Indomptables  – Regia: Thomas N’Gijol; sceneggiatura: Thomas N’Gijol, Mosco Bocault, Patrick Rocher; fotografia: Patrick Blossier; montaggio: Cécile Lapergue; musica: Dany Synthé e Isko; interpreti: Thomas N’Gijol, Danilo Melande, Bienvenu Roland Mvoe, Thérèse Ngono, Ariane Ntomba; produzione: Thomas N’Gijol  e Pascal Caucheteux per Why Not Production; origine: Camerun/Francia, 2005; durata: 81 minuti.

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