A un passo dalla conclusione della stagione 2024-2025 è tempo di bilanci. In che stato versa, in termini di incassi e non solo, il cinema italiano? Se andiamo a vedere i dati al botteghino, si scopre che fra i primi 100 incassi, vi sono ben 24 film italiani, non male come risultato, almeno in apparenza.
I 100 incassi, giova ricordarlo, comprendono anche i film ri-editi a distanza di anni in 4K, che dunque cumulano gli incassi di ora con quelli di allora (nel caso di questa stagione ad esempio Pulp Fiction oppure Parasite, Dogville oppure Arancia Meccanica). I molti dati che adesso seguiranno sono aggiornati alla data del 17 giugno 2025, dati certamente passibili di ulteriori seppur non credo particolarmente significative correzioni
Fra i primi dieci incassi troviamo FolleMente di Paolo Genovese (17,5 milioni di euro, sesto posto complessivo, dopo cinque film targati USA), Diamanti di Ferzan Ozpetek (16,1 milioni, settimo posto) e Il ragazzo dai pantaloni rosa di Margherita Ferri (10 milioni, decimo posto). Niente di particolarmente sorprendente, si tratta di tre film, di livello certamente non eccelso, ma che riescono tuttavia a intercettare varie tipologie di spettatori e appartengono a tre diverse categorie in termini di genere, una commedia sentimentale, un mix di film drammatico e commedia sentimentale e un film decisamente drammatico, di denuncia, basato su una storia realmente accaduta. A parte Diamanti, che nei prossimi mesi uscirà in diversi paesi europei e non, gli altri due non sembrano avere grandi possibilità di varcare i confini nazionali. Dubito fortemente che il film di Paolo Genovese possa ripetere il successo planetario di Perfetti sconosciuti.
Interessante quanto è successo nella seconda decina, dalla posizione 11 alla posizione 20. Anche qui abbiamo tre film: Io sono la fine del mondo di Gennaro Nunziante (undicesimo posto, quarto italiano, 9,7 milioni), Io e te dobbiamo parlare di Alessandro Siani (tredicesimo posto, quinto italiano, 9,4 milioni) e Parthenope (diciassettesimo posto, sesto italiano, 7,5 milioni) di Paolo Sorrentino. A parte Parthenope, forte della presenza a Cannes nel maggio del 2024 e distribuito in tutto il mondo, forse l’unico film italiano (insieme a Queer di Luca Guadagnino, comunque girato in inglese), data la notorietà del regista, a vantare un forte appeal internazionale, ci troviamo di fronte a due commedie di livello decisamente modesto, un aspetto su cui più avanti torneremo.
Nella terza decina, dalla posizione 21 alla posizione 30 troviamo soltanto Napoli-New York di Gabriele Salvatores, con un incasso di 5 milioni di euro, in ventiseiesima posizione.
Nella quarta decina, dalla posizione 31 alla posizione 40, tre film, fra cui due ulteriori commedie: 10 giorni con i suoi (posizione n° 32, con 4,5 milioni) e Cortina Express di Eros Puglielli (posizione n° 34, con 4,2 milioni), nonché al 38esimo posto Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre, film vincitore di diversi premi ai recenti David di Donatello, di cui è annunciata la prossima distribuzione in Spagna e Portogallo (3,8 milioni).
A seguire, giusto per concludere la lista: L’abbaglio di Roberto Andò (posizione 43, incasso di 3,3 milioni); hanno incassato una cifra oscillante fra 3 milioni e 2 milioni di euro : Le assaggiatrici di Silvio Soldini (posizione 46, 2,9 milioni), Vermiglio di Maura del Pero (posizione 53, anch’esso film stra-premiato e che ha rappresentato l’Italia all’Oscar, pur senza entrare nella cinquina, 2,6 milioni), Iddu – L’ultimo padrino di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia (posizione 58, 2,1 milioni); a seguire: Me Contro Te: Cattivissimi a Natale di Claudio Norza (posizione 65, altra commedia, di cui non parleremo, dichiarando candidamente di non conoscere la serie, di cui questo è il settimo film, e di non aver nessuna intenzione di conoscerla, 1,7 milioni), La città proibita di Gabriele Mainetti (posizione 67, 1, 6 milioni), Fuori di Mario Martone (posizione 69, 1,6 milioni), 30 notti con il mio ex (posizione 75, 1,4 milioni), Dove osano le cicogne di Fausto Brizzi (posizione 84, altra commedia, 1,2 milioni), Campo di battaglia di Gianni Amelio (posizione 85, 1, 2 milioni), il già citato Queer di Luca Guadagnino posizione 87, 1,1 milioni), il primo e unico documentario, quello dedicato all’Inter, intitolato Inter – Due stelle sul cuore di Carlo A. Sigon (posizione 90, 1, 1 milioni), Una terapia di gruppo di Paolo Costella (posizione 92, altra commedia, 1 milione), Il nibbio di Alessandro Tonda (posizione 95, 1 milione) e per concludere l’ottimo Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, anch’esso 1 milione di euro di incassi (posizione 96), giustamente premiato con cinque Nastri d’Argento.
Si tratta dunque di 2 film presentati a Cannes (Parthenope nel 2024 e Fuori nel 2025), 5 film presentati a Venezia: Vermiglio, Iddu – L’ultimo padrino, Campo di battaglia e Queer in Concorso, Il tempo che ci vuole , Fuori concorso, un film presentato a Berlino, seppur solo nello European Film Market, ovvero La città proibita e, per finire, due film presentati alla Festa del Cinema di Roma: Berlinguer – La grande ambizione e Il ragazzo dai pantaloni rosa.
Il dato, a mio avviso più significativo, è la presenza in questa lista di 24 film di ben 9 commedie che, sommate insieme, hanno raccolto la bellezza di 51 milioni di euro di incassi. Non è certo una novità il fatto che così tante commedie stiano così in alto, nessuna delle quali, ci sia consentito dirlo, può essere definita, neanche lontanamente, memorabile (per quel che può valere di queste 9 commedie “Close-Up” ne ha recensite solo 3: FolleMente , Cortina Express e 30 notti con il mio ex).
E allora ci siamo presi la briga di andarle a vedere queste commedie, visto che tutte o quasi, sono reperibili nelle varie piattaforme (solo FolleMente l’abbiamo visto in sala, in occasione dell’uscita al cinema qualche mese fa, senza restarne per nulla entusiasta, a parte qualche singola battuta o brevissima sequenza), e di provare a parlarne anche per compensare, almeno in parte, il “buco” della nostra rivista, dando vita a qualche breve considerazione, andando in ordine di classifica e provando a proporre via via alcune considerazioni sullo stato attuale del cinema comico in Italia.

Io sono la fine del mondo, girato da Gennaro Nunziante, il regista di quattro film di Checco Zalone, si appoggia completamente sulla divisiva notorietà del comico palermitano Angelo Duro (1982) attore televisivo, ma nel frattempo anche teatrale, nonché autore di un libro, pubblicato niente meno che da Mondadori (Il piano B, 2018). Come non di rado nel mondo anglosassone, la cinica “comicità” di Duro si regge su una pronunciata scorrettezza (che prevede ovviamente, al giorno d’oggi, il rifiuto di tutta la cultura “woke”), i suoi monologhi sono maschilisti, omofobi, intrisi di body shaming, il personaggio ce l’ha con determinate minoranze, non indulge mai a forme di solidarietà nei confronti di nessuno, men che meno dei più bisognosi, è perennemente incazzato, non ride mai e si avvale costantemente dell’uso di ripetizioni enfatiche in funzione retorica (es. “devo pagare pure il taxi devo pagare” oppure “Togli ‘ste foto, togli”, “mangia l’insalata mangia”, tutti esempi tratti dal film). In Io sono la fine del mondo, il personaggio creato da Duro, solitamente costruito intorno alla struttura del monologo, accede a una finta dialogicità tenuta insieme da un plot, riconducibile alla versione piccolo borghese del revenge movie. Il protagonista – che non a caso si chiama Angelo al fine di corroborare l’omologia fra il personaggio costruito nel corso degli anni e la “persona” Angelo Duro – torna suo malgrado a Palermo, città natale dell’attore, per dare il cambio alla sorella nell’accudimento dei genitori anziani e malandati, ma anziché occuparsi di loro li sottopone a una serie infinita di vessazioni, uguali e contrarie ai “traumi” presuntivamente da lui subiti in passato (regolarmente rammentati dal protagonista, sotto forma di monologo con l’imitazione delle voci dei genitori, riportate con una vocalità stridula), anche se poi, in determinati casi, il rapporto di causa/effetto fra trauma e vendetta diviene un po’ lasco e la cattiveria finisce per diventare fine a sé stessa, puro sadismo. Come nel famigerato monologo tenuto a Sanremo nel 2023, come nei numerosi spettacoli teatrali tutti sold out, la comicità di Duro ha evidentemente la capacità di intercettare una serie di istinti viscerali, inconfessati e inconsci, direi soprattutto maschili, di scorrettezza e di vendetta, una funzione liberatoria che sembra funzionare, visto il successo ottenuto negli anni, ormai più di dieci. Il film è prodotto, in collaborazione con Sky, da Vision Distribution e Indiana Production, quest’ultima con una settantina di film alle spalle, per lo più comici ma non solo, basti pensare – che so io – a Il capitale umano di Paolo Virzì, a Lubo di Giorgio Diritti, a Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone. Oltreché di qualche scorcio di paesaggio siciliano, pur senza l’ausilio della locale Film Commission, il film si avvale – ma ciò varrà per tutti i film di cui parleremo – del cofinanziamento del Ministero della Cultura, “Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo”, della cui funzione e finalità un giorno sarebbe opportuno parlare.
Circa 300.000 euro in meno (ma ci muoviamo pur sempre nell’ordine dei 9 milioni di euro), rispetto al film di Nunziante, sono stati incassati da Io e te dobbiamo parlare, film diretto dal comico, cabarettista etc. etc Alessandro Siani (1975), originario come tutti sanno della città di Napoli. Siani, giunto all’ottava regia, è anche autore della sceneggiatura con la collaborazione di Gianluca Bernardini. La costellazione produttiva e co-produttiva di questo film prevede, oltre alla consolidata Italian International Film di Fulvio Lucisano, Netflix e, non senza qualche sorpresa, Rai Cinema, nella persona di Paolo Del Brocco che si avvale – di nuovo del cofinanziamento del Ministero della Cultura, “Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo”, oltreché dei finanziamenti della regione Marche, visto che il film è stato girato nel Conero (Ancona, Numana e Osimo). La presunta “forza” del film dovrebbe risiedere nella riproposizione del genere del cosiddetto buddy movie regionalistico, di cui l’esempio più celebre e riuscito resta Non ci resta che piangere del 1984, con Roberto Benigni e Massimo Troisi, declinato qui nella variante buddy cop movies. Anche qui la costellazione è tosco-napoletana, con lo stesso Siani da una parte e Leonardo Pieraccioni (1965), interprete dopo 25 anni di un film non da lui diretto. Purtroppo il film non funziona né nella sua versione comica (più volte siamo nei pressi della cucitura di sequenze barzellettistiche, di flosci giochi di parole), né tanto meno nella sua versione poliziottesca, con una trama farraginosa e del tutto improbabile, incentrata su due poliziotti maldestri e sfigati che riescono, sorprendentemente e per caso, a smascherare una rete criminosa orchestrata da un riccastro possidente e collezionista d’arte, interpretato da un alquanto improbabile Enrico Lo Verso. A tutto questo vengono ad aggiungersi scene ridicolmente pruriginose come quelle degli incontri erotici fra Pieraccioni e la sua compagna, ex moglie di Siani, roba da far rimpiangere Alvaro Vitali e Lino Banfi. Il tutto condito da una iper-regionalizzazione dei dialoghi (toscanismi, napoletanismi, con una leggera preminenza di questi ultimi, data l’origine del regista) che dovrebbero produrre comicità, ma che ancora una volta risultano del tutto privi di verve, un film fiacco, stanco, senza ritmo, senza niente, ma veramente niente da salvare, un giudizio, il mio, condiviso in toto dalla critica (non mi pare di aver letto una sola recensione positiva di questo film).
Veniamo brevemente a parlare del terzo film in ordine di incassi (4 milioni e mezzo), ovvero 10 giorni con i suoi , terzo film della serie, dopo 10 giorni senza mamma del 2019 e 10 giorni con Babbo Natale del 2020, tutti film diretti da Alessandro Genovesi (1973) e interpretati da Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, nonché da tre bambini/adolescenti nel frattempo cresciuti. Senza stare a richiamare i due precedenti episodi della saga, il film si basa stavolta sulla commistione di due sottogeneri, il genere del culture clash, di nuovo, regionalista, sul modello di Benvenuti al Sud (2010) e dell’omologo Benvenuti al Nord (2012) e di un altra forma di culture clash ovvero quella fra due famiglie di stato e cultura diversi, sul modello di Meet the Parents (2000) e relativi sequel: due famiglie diversissime “costrette” ad incontrarsi perché la figlia dell’una e il figlio dell’altra si sono messi insieme e, addirittura, decidono di andare a vivere sotto lo stesso tetto, malgrado il pronunciato scetticismo del padre della ragazza, interpretato appunto dal più che dignitoso, quanto a modalità e a tempi comici, Fabio De Luigi, il tutto con l’aggiunta di una terza modalità comica, ovvero quella che con molta buona volontà potremmo battezzare comedy of errors, originata dal fatto che la famiglia del nord (in realtà di Roma) , aspetta un quarto figlio, tutti gli altri personaggi, compresi i tre figli, capiscono tutt’altro e ci vorranno diversi minuti prima di chiarire l’equivoco. Rispetto al film di Siani, quello di Genovesi, pur non essendo niente di speciale, appare assai più solido sul piano della sceneggiatura, anche se non immune da brutte cadute, per esempio tutta la sequenza in cui il personaggio interpretato da De Luigi si lascia convincere a interpretare Gesù Cristo in una processione locale, con tanto di fustigazione (una scena che me ne ha ricordata una analoga, ma maggiormente giustificata sul piano della sceneggiatura, ovvero quella della lapidazione di Rambaldo Melandri alias Gastone Moschin innamorato di una donna religiosissima in Amici Miei – Atto II). Forse perché più consolidati e affiatati, i personaggi provenienti dal Nord funzionano nettamente meglio dei personaggi che troviamo al Sud, autentiche macchiette, soprattutto i due adulti, ma anche il figlioletto nerd. 10 giorni con i tuoi è prodotto da Medusa, è anch’esso finanziato dal Ministero, ma non si avvale del sostegno economico della Film Commission pugliese, malgrado mostri tutte le bellezze del Salento (e leggendo i titoli di coda, si vede quanti comuni, piccoli e grandi, siano coinvolti, a cominciare da Lecce).
Non ci soffermeremo, come detto sulle commedie già trattate dalla rivista: ossia come detto: FolleMente , Cortina Express e 30 notti con il mio ex.
Resta da dire invece qualcosa sulle ultime due commedie, Dove osano le cicogne e Una terapia di gruppo, ovvero l’ottava e la nona ricomprese fra i primi 100 incassi. Pur non essendo nessuna delle due niente di speciale, entrambe ambiscono a coniugare secondo una modalità prevalentemente comica, ma non solo, due questioni che si potrebbero definire di rilevanza sociale: nel primo caso la fecondazione eterologa, nel secondo il disagio psichico.
Partiamo dal primo film. Dove osano le cicogne è il diciassettesimo film del regista romano Fausto Brizzi (1968), emerso – lo si ricorderà – una ventina d’anni fa con Notte prima degli esami (2006) e suo relativo sequel, l’anno successivo. Il film tratta di una coppia, composta da soggetti non più giovanissimi, interpretati da due celebri comici televisivi, ovvero Angelo Pintus (1975) e Marta Zoboli (1978) – e come già nel caso di Angelo Duro, anche qua i personaggi recano gli stessi nomi degli attori, dunque Angelo e Marta, al fine, per così dire, di richiamarsi al brand. La coppia vorrebbe procreare, ma i problemi, lo scopriamo strada facendo, soprattutto della donna (affetta da endometriosi) non lo permettono. Dopo infiniti tentativi, decidono di andare a Barcellona a cercare una donna disposta a farsi carico della gravidanza con gli ovuli di Marta fecondati dallo sperma di Angelo. La fanciulla spagnola, anzi catalana che risponde al nome di Luce (interpretata dall’italianissima Beatrice Arnera) segue i protagonisti a Milano, trasformando non poco la loro esistenza anche grazie a una serie di colpi di scena che non rivelerò se qualcuno volesse vedere il film, reperibile su Netflix. In un panorama comico, come si è visto, non particolarmente esaltante, va segnalata l’ambizione degli sceneggiatori (5 in tutto, fra cui Brizzi e Pintus) di toccare un argomento scabroso, divenuto nei mesi successivi alle riprese ancor più drammatico, vista la decisione del governo Meloni di perseguire come reato universale (legge del 16 ottobre 2024) la gravidanza eterologa. Sul piano attoriale si lasciano nettamente preferire i personaggi minori: Tullio Solenghi, ex colonnello dei carabinieri, che interpreta il padre di Marta e che è costantemente, anche da pensionato, in cerca di reati, con un particolare accanimento nei confronti del genero; il veterano Antonio Catania, nel ruolo del preside della scuola in cui lavora Angelo; la suocera Imma Piro, storica attrice napoletana, cresciuta alla scuola di Eduardo; Maria Amelia Monti nel ruolo di una ostetrica new age. Il film è a tratti parecchio stiracchiato con scene decisamente riempitive, ma tutto sommato si lascia vedere. Trovo che il suo principale difetto sia l’incapacità di caratterizzare in modo plausibile la collocazione sociale dei personaggi, che vivono sui Navigli (una delle zone più care di Milano, anche se viene detto che hanno un mutuo) e fanno l’uno il maestro elementare e l’altra la psicanalista. Il primo vira il proprio mestiere in modo totalmente macchiettistico, la seconda si vede una sola volta esercitare in una seduta online, e francamente appare poco credibile. Mi pare che in generale la commedia italiana sia del tutto incapace di raffigurare l’Italia, con i suoi mestieri e le sue professioni. Vi sembrava credibile ad esempio Edoardo Leo, professore di filosofia, in FolleMente? Per non parlare delle “professioni” esercitate dai laureati nella serie Maschi veri, produzione Netflix, di cui ho già avuto occasione di parlare.
Veniamo per concludere a parlare dell’ultima commedia, ovvero Una terapia di gruppo di Paolo Costella, un film che ad un tempo prova a rinegoziare un intreccio che sta alla base di diversi i film del passato, a cominciare da Terapia di gruppo (1987) di Robert Altman fino ad arrivare a Ma che colpa abbiamo noi (2003) di Carlo Verdone e dall’altro rappresenta la trasposizione di una pièce francese del 2005 (autore Laurent Baffie) già passata al cinema, in Spagna, col medesimo titolo, ossia Toc Toc che è la sigla, in francese, di “Troubles Obsessionels Compulsifs” e in spagnolo di “Trastorno obsesivo compulsivo”. In tutti e tre i casi l’inattesa assenza del terapeuta induce i sei pazienti, convocati alla stessa ora, di provare a dar vita, loro malgrado, a una forma di auto-terapia che finirà per sortire un discreto effetto. Gli attori convocati da Costella sono, complessivamente, di notevole livello: Margherita Buy (nel ruolo di una giudice ossessionata dalla smania del controllo, apre e chiude le porte un numero impressionante di volte etc.), Claudio Bisio (archivista affetto da sindrome di Tourette, bravissimo), Claudio Santamaria (tassista un po’ tamarro affetto da aritmomania, ovvero l’ossessione del continuo conteggio), Valentina Lodovini (tecnica di laboratorio ossessionata dall’igiene personale), Ludovica Francesconi (istruttrice di fitness ossessionata dalla simmetria e affetta da ecolalia), infine Leo Gassmann (aspirante manager, affetto da FOMO, Fear of Missing Out, paura di restare esclusi, particolarmente accentuata negli ultimi anni dalla presenza di cellulari e dall’invadenza dei social media). Un film del genere, lo si capisce bene, presenta, da un lato, un grande rischio e dall’altro è strettamente dipendente dalla qualità degli attori. Degli attori abbiamo detto, tutti da bravi a bravissimi, il rischio è claustrofobia e impianto marcatamente teatrale, stante anche l’origine teatrale, appunto, del testo. Il film è nell’insieme piuttosto ripetitivo, ma almeno a tratti, grazie – lo ripeto – alla bravura degli attori funziona piuttosto bene.
Senza stare a rievocare la fausta stagione della commedia all’italiana, mi permetto di affermare che nella stagione 2024-2025 il cinema comico italiano non goda di buonissima salute. Tuttavia, almeno 4 dei 10 film menzionati portano al cinema molte persone che in assenza di questi film al cinema non ci andrebbero proprio e come si dice tengono vivo il movimento complessivo del cinema italiano, mi riferisco a Io sono la fine del mondo, Io e te dobbiamo parlare, Cortina Expresse Me contro te: Cattivissimi a Natale, stiamo pur sempre parlando di una cifra niente affatto banale, ovvero 25 milioni di euro.
P. S. Fra i 100 maggiori incassi, di cui parlavo all’inizio, oltre a quelli italiani, ce ne sono solo 16 che non siano targati USA. 9 sono tuttavia riedizioni. Degli altri sette fanno parte, innanzitutto, tre film d’animazione (uno francese: A spasso con Willy, uno giapponese: Dragon Ball Z – la battaglia degli dei e una coproduzione Belgio-Lettonia-Francia: Flow – un mondo da salvare, vincitore dell’Oscar). Poi è il turno di due film inglesi: The Brutalist di Bryan Corbet e We live in Time di John Crowley (si tratta in realtà una coproduzione franco-inglese); dunque un film spagnolo, ma girato in inglese, ossia La stanza accanto di Pedro Almodóvar. L’unico film che non sia in lingua inglese, è il film che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, Ainda estou aqui (Io sono ancora qui) di Walter Salles. Del cinema europeo, dunque, si sono un po’ perse le tracce, quanto meno in termini di incassi. Ma anche questa non è una novità.
