Dancer in the Dark di Lars von Trier

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Se dovessimo cominciare ad introdurre una serie di riflessioni su Dancer in the dark (appena riuscito tra la serie di tre film di Lars von Trier restaurati in 4K), opera per tanti motivi spartiacque (a partire dalla sua data di realizzazione, il 2000,  a cavallo tra un secolo e l’altro, con tanto di epocale Palma d’oro al Festival di Cannes) di un cineasta che in quel momento  più di tutti infiammava il dibattito intorno alle possibilità formali, estetiche e etiche del cinema, l’ouverture riguarderebbe proprio la questione dello sguardo: nell’epoca in cui viviamo, nella quale la molteplicità dei punti di vista è diventata costitutiva dell’atto del vedere in quanto produzione e fruizione, senza più una distinzione tra la dimensione pubblica e quella privata, tra l’offrirsi agli sguardi in maniera trasparente e il farsi spiare dietro l’opacità di uno schermo/finestra, l’assunto di von Trier per quel film possedeva una forza premonitrice (includendovi già un aspetto problematico); nel raccontare il grande sogno di Selma, l’operaia emigrata negli Stati Uniti alla ricerca di un futuro migliore  per il figlio, che elude la monotonia dismessa e dissonante del lavoro in fabbrica trasfigurandola con l’immaginazione nell’euforia e nell’armonia di un musical in technicolor, decise di mettere all’opera , nei numeri cantati e ballati, 100 videocamere digitali. L’effetto straniante che ne deriva è quello di una frammentazione di singole scene e perfino di fotogrammi e, al tempo, stesso di una totalità di sequenze colte nel loro senso complessivo, seppur percepite in quanto innesti monadici di un new world to see ( come dice la canzone finale con le musiche Björk e le parole dello stesso von Trier); la progressione di una piscosi in scollegamento dalla realtà e in connessione con un immaginario che risponde ai bisogni e ai sogni del soggetto che lo crea. Il flashforward rispetto alla contemporaneità, nella quale lo status dell’immagine digitale si è completamente fuso con il tema dell’identità (fluttuante, trasformabile, manipolabile o integrata in un nuovo sistema a uso e consumo, a seconda della lettura che se ne vuole dare) risulta particolarmente centrato e amplificato se si pensa alla figura di Selma: una donna che conserva, pur nelle avversità (lei e il figlio Gene sono condannati alla cecità a causa di una malattia genetica) un atteggiamento fideistico nei confronti dell’umanità, rifiutandosi di tradire la parola data anche a coloro i quali l’hanno derubata e ingannata. Una fede/fiducia nell’altro da sé contradetta dalla crescente perdita della vista di Selma che dunque non può più vedere/sapere quello che succede intono a lei, oppure ne fraintende le intenzioni e i comportamenti.

La dispersione dello sguardo in un pluralità di posizioni e prospettive sta ad indicare l’impossibilità di stare al mondo, in rapporto con esso, mantenendo quell’anelito di (sua) verità e autenticità, al costo di apparire naif e patetica. Selma è l’antesignana portatrice , come spesso accade per i personaggi femminili vontrieriani, di quel conflitto tra la tensione nei confronti di una visione e di un ascolto assoluti (dove realtà e immaginario si sovrappongono generando un immanente altrove) e la frustrazione/struggimento consumato da una visione e da un ascolto parziali: a quest’ultimo proposito è emblematica l’estenuante scena nella quale Selma si trova nella cella del carcere, in cui è stata rinchiusa in attesa di essere giustiziata, dopo la condanna a morte per l’uccisione di Jim, il suo padrone di casa , che si era impadronito dei risparmi messi da parte per l’operazione agli occhi di  Gene. La mdp di von Trier resta attaccata al corpo e al volto di Selma/Bjork, fino quasi a schiacciarla contro le pareti, e a soffocarne la voce, il tentativo di intonare una melodia che possa trasportarla, per l’ultima volta, sul set di un film di Fred Astaire e Ginger Rogers. Eppure questa apertura, concessale fino a quel momento, sembra non arrivare a manifestarsi , come se anche la mente e il cuore fossero ridotti all’angolo di un realismo punitivo, dogmatico – quel Dogma ’95 di cui Dancer in the Dark rappresenta  lo snodo critico e in qualche maniera la pietra tombale, il passaggio obbligato dalla “casa padre ” del principio inderogabile alla Dogville di una messa in scena colta nel suo farsi e disfarsi, nel fare dell’immagine il backstage di uno scoperchiato teatro di posa che si flette e riflette su stesso.

E nessuno avrebbe potuto incarnare meglio di Björk un personaggio bigger than life, intendendo il superamento anche della propria condizione di eroina melodrammatica e di laica martire in saltellante andamento sulla Croisette di una via crucis della società dello spettacolo. All’apice del suo inaspettato successo da solita, dopo la militanza negli Sugarcubes, conquistato con l’audace contaminazione dell’elettronica e del pop, della musica sinfonica e di quella folk, la cantautrice islandese aveva contribuito a modificare il sound e il design della pop star, destrutturandone impressioni ed emanazioni; una rappresentazione di sé che si scontra con l’ulteriore destrutturazione messa in atto da von Trier, nello spingere la cantautrice islandese fino al limite tra l’istrionismo performante dell’attrice rivelazione e l’autentico crollo nervoso dell’artista prestata alla recitazione, con uno strascico fuori dal set di dichiarazioni, racconti, accuse troppo caricate ed esplicative rispetto alla dichiarata e troppo comoda versione del rapporto tra vittima e carnefice:  un’interazione esplorata ed espressa con una maggiore complessità nella messa in discussione del dispositivo in cui c’è chi guarda/controlla/manipola e chi viene guardato/controllato/manipolato. Björk infatti pone una strenua resistenza contro il dominio di una visione totalizzante e si appropria di uno spazio e di un tempo più intimo, pacato, poetico, anche se a posteriori si può dire che quello spazio era già previsto nel modo in cui Lars la filmava, lasciandole, seppur per contrasto e non per empatia,  il terreno per un’intonazione disperatamente vitale e  gioiosamente mortifera( la memorabile sequenza in cui balla al tempo di tiptap i passi per andare verso il patibolo).

La continua apnea di un orrore-meraviglia (If living is seeing, I’m holding my breath canta Selma/Björk)  suscitata da un mondo che già non esiste, che è anch’esso trasfigurato nell’immaginazione, in un possibile ricordo mai vissuto: L’America periferica e industriale degli anni ’60, per il pretesto della nota paura di volare di von Trier, venne ricostruita intorni ai boschi dell’hinterland svedese, con una suggestione concettuale che richiama, secondo lo stesso autore, il senso di un’immagine precisa: la statua della libertà che impugna e  solleva una spada, cosi com’era vista da Karl Rossmann, il giovane protagonista emigrante a New York nell’ incipit del romanzo Il disperso di Franz Kafka, che negli Stati Uniti in realtà non era mai stato. E si potrebbe aggiungere, in ulteriore associazione, che lo sbarco di Karl nella nuovo mondo prosegue con una proliferazione di sguardi rivolti da e verso di lui (“Sullo sfondo, infine, c’era New York che guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli”).

Abbiamo veramente visto tutto, e siamo stati visti da tutto, ora che gli schermi dove possiamo caricare, conservare e riguardare la nostra memoria sono diventati ancora più piccoli di quello di una tv e che lo schermo cinematografico rischia di rimanere condannato al loop di una dissolvenza in nero.

In sala il 9-10-11 giugno 2025.


Dancer in the Dark – Regia e sceneggiatura: Lars von Trier; fotografia: Robby Muller; montaggio: Francois Gédigier, Molly Marlene Stensgard; musiche: Bjork, Richard Rodgers; interpreti: Bjork, Catherine Deneuve, David Morse, Peter Stormare, Cara Seymour, Joel Grey, Jean-Marc Barr, Siobhan Fallon, Udo Kier, Zeljko Ivanek ; produzione: Zentropa; origine: Danimarca, 2000; durata: 140 minuti; distribuzione: Movie Inspired.

 

 

 

 

 

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