D’Annunzio, l’uomo che inventò sé stesso di Francesca Pirani e Stefano Viali

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“Sono insofferente di qualunque giogo: pronto all’ira ed alle offese quanto al perdono: leale e sprezzatore acerrimo dei vili: avverso per lo più a tutto quello che fa il mondo: amatore ardente dell’Arte nuova e delle donne belle: singolarissimo nei gusti: tenacissimo nelle opinioni: schietto fino alla durezza, prodigo fino allo sciupio: entusiasta fino alla follia…Che più? Ah! Avevo dimenticato una cosa: son cattivo poeta e intrepido narratore di sogni.”

Sì, perché D’Annunzio, l’uomo che inventò sé stesso, fu effettivamente un cattivo poeta: individualista senza remore, audace visionario e leader per scelta e vocazione, straordinariamente colto e pericolosamente popolare, aristocratico e tirannico come l’eroe di una lunga epopea in versi. Chiunque abbia frequentato un qualsiasi liceo italiano nell’arco degli ultimi cinquanta o settant’anni conosce l’espressione interdetta a cui l’insegnante si abbandona quando, fra i mille volti dell’antologia, compare quello del cosiddetto Vate. L’aggettivo controverso esplode nell’aula, squarciando l’indifferenza generale degli allievi, per poi svanire in fretta e furia dietro le quinte della vituperatissima Pioggia nel pineto. Fine della storia: con un sospiro di sollievo, il professore sfoglia il volume e approda sulle sponde amiche di Ungaretti. D’Annunzio si eclissa, come dire, “fra le tamerici salmastre ed arse”. E invece no.

Abbiamo l’impressione che la coppia di registi Francesca Pirani e Stefano Viali conosca molto bene questo tipo di scenario: e infatti, il loro cattivo poeta rimane tale, conservando quell’ambiguità di fondo che lo salva dalle etichette e dunque dall’oblio. D’Annunzio, qui redivivo in piccoli squarci grazie all’esaltata interpretazione di Fausto Cabra, riemerge da una storiografia spesso e volentieri ancora prona ai terribili -ismi novecenteschi, alla standardizzazione che trasforma l’uno in piatta moltitudine. Al tradizionale racconto biografico, narratoci con entusiasta causticità dallo storico (nonché presidente del Vittoriale) Giordano Bruno Guerri, si affiancano le istantanee di un’Italia sospesa fra passato, presente e futuro. Accatastando alla rinfusa immagini di repertorio, interviste a giovani studenti e hit uscite dall’infernale calderone Sanremese, la cinepresa allestisce quel teatro rutilante, gioioso e senza tempo che fu tanto caro al Vate.

L’esistenza per così dire dannunziana si divide in tappe provvisorie – tappe che il nostro protagonista sfiora con mano leggera, per poi passare oltre: l’adolescenza al collegio, le prime insubordinazioni, le decadenti avventure romane, la scoperta del Piacere, l’incontro con la Donna in quanto creatura estranea e inquietante sfaccettatura del proprio animo. E via dicendo, in un percorso a ostacoli che rimette in scena la dolorosa staffetta del vecchio secolo: l’invasione delle automobili e degli aerei (di carta), la Grande Guerra, la febbrile corsa verso le trincee e verso la morte, il suicidio collettivo della nazione “unita e ardente” già celebrata dal Magister Vitae Giosuè Carducci. D’Annunzio orna di tinte leggendarie perfino il suo tramonto, gettandosi in un’impresa – l’occupazione di Fiume – che forse rappresentò l’ultimo barlume sano di un’eccitazione sociale destinata a inabissarsi nella violenza e nella vergogna. Ma nel travagliato anno che intercorre fra il settembre 1919 e il dicembre 1920, il cattivo poeta è ancora intrepido narratore di sogni, e stipula la Carta del Carnaro – la Costituzione del Futuro.

È l’epoca dell’iperbole, dell’azione, dei manifesti e delle grandi speranze mutatesi in agghiaccianti incubi: L’Italia di Pirani e Viali è appassionata, blu come una poesia di Marinetti, seducente e ironicamente logorroica come le parole del Vate, caotica e saturata come il suo immaginario, affamata e insaziabile come la sua gioia di vivere – una gioia tutta racchiusa nel noto grido “eja eja alalà: viva l’amore!”. Una sentenza, quest’ultima, che racchiude il meglio dei sopracitati -ismi e che (non a caso!) Mussolini si premurò di censurare.

Così iniziano i capitoli definibili come controversi: la marcia su Roma, la dorata prigionia fascista, Adolf Hitler e l’inarrestabile discesa verso la voragine del secondo conflitto mondiale. Il cattivo poeta, da bravo cattivo poeta, compie un gesto inaspettato: si ritira dietro le quinte del proprio mausoleo, tagliando i ponti con il suo presente storico e ostentando una sprezzante indifferenza. Nasce così il Vittoriale degli Italiani – quasi si trattasse di una beffa, di un ultimo sfregio ad un Paese che, dalla bellezza, ha saputo trarre solo orrori. Come l’eroe di Huysmans (il giovane Jean Floressas Des Esseintes, protagonista del celebre romanzo Controcorrente), D’Annunzio costruisce un’oasi immutabile, specchio nervoso di ciò che avrebbe potuto essere, ma che infine non è stato. E qui, fra le “tamerici” di un universo che mai fu, approda anche il lungometraggio, posizionandosi al di là di fastidiosi verdetti postumi o tediose letture liceali. Il giudizio, del resto, non è cosa da cattivi poeti.

In onda stasera 23 giugno su Rai 3 ore 21,30 e poi visibile su Raiplay


Cast & Credits

D’Annunzio, l’uomo che inventò sé stesso  –  Regia: Francesca Pirani, Stefano Viali; sceneggiatura: Giordano Bruno Guerri, Paola Veneto, Stefano Voltaggio; fotografia: Massimo Intoppa; montaggio: Nicola Moruzzi; interpreti: Giordano Bruno Guerri, Fausto Cabra, Giulia Mombelli, Luisa Borini, Ilaria Marcelli, Sofia Diaz, Eco Andriolo, Mario Migliucci, Adriano Saleri, Pierluca Pucci Poppi, Tommaso Moggi, Paola De Cesari; produzione: Ince Media; in collaborazione con Rai Documentari, Istituto Luce; origine: Italia 2022; durata: 92’.

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