È morto il 20 novembre 2022 a Rolle – la stessa località svizzera in cui era deceduto anche l’amico Jean-Luc Godard lo scorso 13 settembre) Jean-Marie Straub (1933 ) che ha così raggiunto la sua compagna Danièle Huillet (1936) deceduta nel 2006. Insieme sono stati la coppia più importante con cui è nato il Cinema moderno negli anni Sessanta.
In attesa di un ricordo più approfondito che seguirà nei prossimi giorni, ripubblico stralci di una mia intervista riguardo a quello che considero il loro film più importante – o almeno uno dei loro fondamentali e comunque il mio preferito: Klassenverhältnisse (Rapporti di classe, 1983). (G.Sp.)
Una brevissima premessa per introdurre questa intervista a Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet, gli autori del film Klassenverhältnisse (Rapporti di classe, 1983) tratto da Amerika (Der Verschollene) di Franz Kafka. Da molte parti si è ripetuto e si continua a ripetere che lo scrittore praghese è, a differenza di altri, un autore infilmabile, in quanto tramite la sua lingua ci avrebbe consegnato delle immagini molto precise che azzererebbero (o almeno tenderebbero a farlo) la possibilità di corrispondenti immagini visive. Naturalmente tale “pregiudizio” non ha impedito che le opere di Kafka siano state, a più riprese, utilizzate dai media della riproducibilità tecnica – senza voler parlare poi di tutto ciò che il “kafkismo” ha prodotto in campo cine-televisivo perché allora il discorso si allargherebbe a dismisura. […] In ogni caso per lo meno due esempi smentiscono, nella pratica e nei risultati, la teoria della presunta non filmabilità di Kafka: Le Procès/The Trial (Il processo, 1962) di Orson Welles e appunto Klassenverhältnisse. [….]. Le Procès è soprattutto un “pre-testo” perché – contro o al di là del romanzo di Kafka – si è trasformato in un’opera compiutamente e baroccamente wellesiana, che si iscrive in modo perfetto nel mondo del grande regista americano – non è un caso che l’autore lo consideri il film migliore della sua carriera. Tutt’altro tipo di discorso cinematografico – lontano dalle deformazioni dei grandangoli, le inquadrature dal basso e la monumentalità degli spazi di Welles – è quello che affrontano invece Jean-Marie Straub e Danièle Huillet – qualcuno ha definito il loro lavoro il “protocollo cinematografico di una lettura”. Ma a questo punto è tempo di lasciare la parola ai due autori.
Giovanni Spagnoletti: Voi avete dichiarato presentando al Festival di Pesaro Schwarze Sünde (Peccato nero, 1989) che molte volte all’origine dei Vostri film c’è un luogo, uno spazio più che il testo stesso. Ciò è stato vero anche nel caso di Klassenverhältnisse che avete realizzato, in gran parte, ad Amburgo?
Straub: No per nulla, nel caso di Klassenverhältnisse non è stato così. Devo fare una digressione. Quando sono scappato dalla Francia per non essere costretto a sparare contro gli algerini – il tribunale militare del mio paese mi aveva condannato ad un anno di prigione e ci sono voluti più di dieci anni prima di essere amnistiato -, ero segnalato alla frontiera e quindi non potevo rientrare in Francia. Allora ho cominciato a vagabondare tra Amsterdam – dove c’era Gustav Leonhardt con cui volevamo realizzare Chronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967) – Dresda, Lipsia e la Biblioteca di Berlino-est in cui sono raccolti la maggior parte dei manoscritti di Bach, ma a un certo momento questo mio vagabondaggio doveva finire. Inoltre non avevo più una lira – non che avessi molti soldi prima, tanto che ero giunto a viaggiare in treno di notte per non pagare l’albergo. Les voyages forment la jeunesse ma a un certo punto ti distruggono la vecchiaia e io cominciavo a diventare vecchietto. Allora ho deciso di fermarmi e Danièle [Huillet] mi ha ritrovato. Così finalmente ci siamo stabiliti a Monaco ma solo perché pensavamo che se si tentava di fare dei film – in primo luogo Anna Magdalena Bach che siamo riusciti a realizzare solo dieci anni dopo, nel 1967 – bisognava stare a Monaco. La città, però, a cui pensavo e mi ero affezionato, era Amburgo. Questa sarebbe la risposta rispetto al luogo: no quindi. Ma anche un paradosso: quando vent’anni dopo sono tornato a fare dei film in Germania, abbiamo girato Klassenverhältnisse ad Amburgo perché era la prima città tedesca in cui pensavo che sarei diventato sedentario.
In precedenza hai filmato con molti altri autori della letteratura tedesca, Böll o Brecht per esempio. Qual è l’itinerario che vi ha portato a confrontarvi con Kafka?
Straub: Cesare Pavese, ma sarebbe troppo complicato da spiegare. Direi anche Brecht ma non l’uomo di teatro bensì il Brecht di un romanzo perché il film a cui fai riferimento è il nostro Geschichtsunterricht (Lezioni di storia, 1972) – trenta pagine tratte dal suo romanzo incompiuto Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar (Gli affari del Signor Giulio Cesare) di circa trecento pagine. Tutti i testi che poi diventano dei nostri film, sono degli incontri e come tali sono sempre casuali, dipendono dalla vita, dall’esperienza, dai sentimenti, ecc. Non siamo noi che cerchiamo i testi sono loro che ci prendono – non saprei dire di più.
Inoltre, un giorno, per caso, ho incontrato a Francoforte Peter Handke – io stavo andando a mostrare Geschichtsunterricht all’editore Suhrkamp perché l’avevo fatto senza avere i diritti. Handke mi ha accompagnato, ha visto anche lui il film e dopo mi ha detto che era meglio di Brecht. Mi ha fatto un complimento velenoso sia per noi che per Brecht, dicendomi che il film era “schmerzlich” (doloroso) mentre a suo avviso Brecht non lo è mai. Ed io ho ci ho riflettuto un po’ sopra.
Inizialmente, l’idea che avevo, era di filmare solo il primo capitolo, l’unico testo del romanzo che Kafka pubblicò in vita: Der Heizer (Il fuochista). Sarebbe stato un cortometraggio di 15-20 minuti ma poi quando abbiamo cominciato a lavorare, siamo arrivati a tutto il romanzo.
Se non sbaglio il vostro romanzo preferito di Kafka è Das Schloss (Il castello), perché allora non avete filmato quello?
Straub: Perché Il castello l’ho scoperto solo dopo aver fatto il film. Cioè l’avevo letto già in precedenza ma come dire l’avevo “survolé”, solo sfogliato – come tutti gli intellettuali ascoltano un pezzo di musica, vale a dire non ascoltano, leggono soltanto il programma o guardano il giornale, il soffitto oppure in se stessi – il che è ancora peggio. Io, poi, sono uno che ha letto pochissimo, al contrario di Daniéle – già da trent’anni non riesco a farlo ma due anni fa sono riuscito a leggere Il castello grazie a questa nuova edizione che ritorna al manoscritto originale (2). Per me si tratta del testo più grande della letteratura contemporanea. E’ un romanzo che basta a se stesso e poi ci sono già troppi film… Il castello è pura letteratura, anche se sembra assurdo esprimersi così – forse domani qualcuno riuscirà a farne un film ma io non ci credo… […]
Da un po’ di tempo a questa parte voi vi confrontate con opere rimaste incompiute, per esempio l’Hölderlin di Tod des Empedokles (Morte d’Empedocle, 1987) nella prima e nella terza stesura e poi questo Kafka. Il fatto che siano dei frammenti è forse il motivo per cui le scegliete?
Straub: Non “peschiamo” i frammenti per cercare i frammenti, per esempio il nostro primo film in Italia, Othon (1969) era un testo completo, quello di Pierre Corneille.
E come avete lavorato sul testo di Kafka?
Straub: Ho preso una penna e l’ho ricopiato come un lettore, come un bambino. E questo mi serve per mettere il testo in questione, per interrogarlo. C’è un regista che si può ammirare e che io in un certo senso ammiro – Alain Resnais – ma che per me ha costantemente sbagliato: ha sempre preso la frase o il testo che io avrei lasciato sulla pagina o a casa. Ne sono risultati dei film interessanti ma che a mio avviso, per me come spettatore, non riescono a far passare i testi che propongono. Ricopiare significa vedere cosa resiste e mi resiste, cosa potrà resistere nello spettatore.
Huillet: C’è da aggiungere che in Kafka c’erano delle cose che “resistevano” ma che non abbiamo potuto mettere nel film perché avremmo dovuto utilizzare la forma del commento fuori campo – cosa che non volevamo fare. Per esempio quando i poliziotti danno la caccia a Karl Rossmann si dice che per fortuna ciò accadeva in un quartiere operaio…
Straub: E si aggiunge: “Die Arbeiter halten es nicht mit den Behörden” cioè “gli operai non sono dalla parte, non tengono per le autorità”. Non volendo un film alla terza persona, abbiamo rinunziato a dei punti del testo come questo o altri.
Partiamo dal titolo che è così forte e stentoreo: Rapporti di classe. Perché non avete usato uno dei due titoli del testo di Kafka?
Huillet: Esiste già un film di Elia Kazan che si intitola America (Il ribelle dell’Anatolia, 1962)
Straub: E poi c’è quello di David W. Griffith. Inoltre il titolo Amerika non è affatto di Kafka bensì di Max Brod che ha un po’ arrangiato il testo. L’altro, Der Verschollene (Il disperso), è il titolo del lavoro di Kafka ma noi facciamo un altro lavoro. Cioè noi per qualsiasi testo che abbiamo utilizzato, non abbiamo mai cercato di riscrivere. Non credo che si possa riscrivere un autore qualsiasi per il cinema perché il cinema non è mai stato né un linguaggio né una scrittura. Perciò non si può riscrivere con la scrittura del cinema qualcosa che è stato scritto da un autore sulla pagina bianca.
Ma il titolo del film non è già una indicazione per come avete letto il testo?
Straub: No, è una provocazione ulteriore trovata a film finito. D’altronde esiste il volumetto di Alfred Wirkner dove si apprende tutto quello che Kafka sapeva sugli Stati Uniti. Per esempio che a Chicago chi lavorava nel mattatoio era condannato ad uccidere venticinque bestie al minuto per dieci ore al giorno. Questo è l’esempio più drastico, Kafka sapeva quante ore lavoravano i bambini e come erano fatte le navi degli emigranti, ecc. Tutto il romanzo è costruito su queste informazioni – qui non si tratta di metafisica. Noi abbiamo scoperto leggendo un po’ Kafka che – per lanciare una formula un po’ balorda – è l’unico poeta della società industriale, cioé del progresso, della crescita che sono i maggiori inganni della storia dell’umanità. D’altronde Kafka stesso ha definito la società capitalistica – usa proprio questo termine – il “sistema delle dipendenze” – a lui interessava la società in cui viveva.
Comunque se voi considerate Kafka un autore realista, la recitazione nel film è però del tutto antirealistica – si tratta quasi di una partitura musicale….
Straub: Si può fare un oratorio realistico – il realismo non è ancora naturalismo…
Huillet: E poi esiste il realismo dell’onirismo cioè arrivare a dire un frase come si sente in un sogno o in un incubo. Se tu ascolti bene, anche per strada si incontra della gente che pronunzia delle frasi in modo del tutto onirico, con il ritmo del sogno.
Straub: Noi cerchiamo di prendere in Kafka o in altri autori, quello che ci interessa, e non sono mai le descrizioni, perché una descrizione al cinema non esiste. Mostrare quello che descrive un autore sulla carta, è assurdo e vano, conduce al nulla. Ciò che ci interessa sono le situazioni e i dialoghi, cioé i rapporti – in questo caso li abbiamo chiamati rapporti di classe.
Come hai lavorato insieme agli attori? Di sicuro esiste una logica nell’aver usato insieme professionisti e non-professionisti – d’altronde questo è uno dei canoni del Vostro metodo….
Straub: Ma è la stessa cosa, solo che chi è attore di mestiere da e si fa l’illusione di arrivare prima dei cosiddetti non-professionisti. Ad un certo momento, però, quel che all’inizio sembrava così bello, diventa tanto cattivo che l’attore deve impegnarsi in un lungo lavoro per tornare a “salire” al punto dove i non-professionisti giungono con più sforzo. Comunque, talvolta, è meglio avere un professionista, per esempio, per la parte dello Zio, in quanto questo personaggio è il rappresentante di una classe sociale.
Huillet: In ogni caso non si tratta di un scelta sistematica perché, per esempio, anche Therese che appartiene ad una classe completamente diversa, è stata interpretata da una attrice (Libgart Schwarz).
Straub: A proposito di questo personaggio noi ritroviamo l’elemento comico di Kafka , cioè di una comicità che diviene sarcasmo – ma non sul personaggio bensì sul sistema sociale. Per esempio quando Therese dice che ha trovato un lavoro “denn im Aufbauen der Servietten habe ich mich immer ausgekannt” [“perchè sono sempre stata brava a piegare i tovaglioli”] – si può parlare di sarcasmo. Questo è l’aspetto che ci interessava, cioè l’esistenza di tutta una macchina della menzogna che funziona come una pala meccanica o una macchina per asfaltare le strade. Comica in questo senso è anche la frase della capocuoca quando rivolgendosi a Karl afferma: “Gerechte Dinge haben auch ein besonderes Aussehen, und das hat, ich muss es gestehen, deine Sache nicht” [” Le cose oneste si riconoscono all’aspetto e non è questo, devo confessarlo, l’aspetto della tua storia”]. Questa è una menzogna enorme perché se così fosse, nella storia non ci sarebbe mai stato un errore giudiziario e se in quel momento la sala non ride, vuol dire che politicamente non c’è più speranza per quel pubblico.
Huillet: Bisogna anche aggiungere che quando la persona che interpretava la parte della capocuoca, ha letto una sera da noi il testo – noi non avevamo detto nulla, le avevamo dato solo il testo -, ha affermato che quella frase era mostruosa. Allora abbiamo avuto la certezza che la nostra scelta era giusta.
Straub: Noi non parliamo mai dei contenuti con gli attori. Prima di mettere gli interpreti insieme, proviamo sempre in tre, io, Danièle e il singolo attore. E se qualche volta lui ci parla dei contenuti, lo facciamo – ma mai noi per primi. Noi lasciamo nascere un testo come ritmo, come una volta ci si raccontavano le storie intorno al fuoco, prima che esistesse la radio, la televisione, la stampa. Una piccola parte di questo è quanto modestamente cerchiamo di ritrovare con i nostri film.
Huillet: D’altronde Kafka spesso leggeva i suoi testi e la cosa interessante dell’edizione critica, è che ha rispettato l’interpunzione originale.
Straub: L’interpunzione di Max Brod è una completa menzogna, lui ha corretto l’interpunzione rendendola “perbene”, “prussiana”. Tornando invece al manoscritto, abbiamo scoperto in Kafka quello che avevamo tentato di fare anni prima con Brecht e cioè di scavalcare il più possibile le virgole. Anche Kafka faceva la stessa cosa mentre Brod ha aggiunto dieci virgole dove magari non ce n’era neanche una. E’ questo che ci interessa in un testo: il ritmo di chi l’ha scritto, chiamiamolo il ritmo interiore, e l’interpunzione di Kafka, casualmente, aveva qualcosa a che fare con il nostro metodo. Forse non a caso, per la ragione a cui accennava Daniéle, perché a Kafka a volte piaceva leggere i suoi testi magari al padre come nel caso di Der Heizer.
In Klassenverhältnisse dai riscontri che ho potuto fare, i dialoghi hanno subito dei minimi cambiamenti rispetto a Kafka…
Straub: Esiste una grande violenza al testo quando ho “cavato” un lungo monologo dal racconto di Therese sulla madre che in Kafka è scritto quasi sempre alla terza persona. Comunque non ho inventato niente rispetto alla pagina di Kafka – io non scrivo dialoghi di cinema perché i film con dialoghi appositamente fatti per il cinema, sono raramente interessanti.
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E perché non avete filmato il presunto capitolo finale del libro: “Das Naturtheater von Oklahoma” (Il teatro naturale di Oklahoma).
Straub: Come? Ma non esiste questo capitolo! Kafka non lo ha scritto! Ho filmato la fine del romanzo mentre non ho mostrato né gli esami sostenuti da Karl, né il banchetto di coloro che sono scelti ad andare in Oklahoma. Non ho mostrato gli angeli che salutano coloro che vengono reclutati, perché ho pensato che l’avrebbe potuto fare un giorno Fellini ma a me non interessava.
Siamo allo stesso punto di prima: è meglio avere il coraggio di tralasciare le descrizioni riprese da un testo. Abbiamo fatto vedere una parte di questo capitolo e soprattutto il testo del manifesto che è la cosa più importante e rappresenta la più bella utopia ebraica mai inventata. Questo manifesto si vede a lungo e per la prima volta c’è un po’ di musica nel film. Dopo aver avuto la possibilità di leggerlo, arriva la musica con le trombe.
A proposito del bianco e nero, forse è un po’ difficile immaginarci Kafka a colori ma in fondo perché no?
Straub: Sì perché no? Il romanzo è a disposizione – altri possono fare dei film a colori…
Huillet: C’è comunque una risposta esteriore. Noi avevamo già pochi elementi a disposizione dell’epoca di cui parla Kafka e la fotografia all’epoca era in bianco e nero e non a colori.
Straub: Avevamo voglia di tornare a fare un film in b./n. dopo diversi anni che realizzavamo film a colori. Aggiungerei poi che i colori del mondo industriale, del cosiddetto mondo moderno, nonsono veri colori. I colori sono le idee che salgono dalla profondità del mondo come diceva Paul Cezanne, sono la linfa, il succo del mondo e non hanno niente a che fare con i colori artificiali che distruggono oggi la nostra possibilità di guardare.
C’è una sorta di “strabismo” tra passato e presente, nell’ambientazione e nei costumi, tra l’inizio secolo ed oggi… come mai?
Straub: Se uno li guarda bene, i costumi sono sempre esatti anche se non sono “pittoreschi” o tipici dell’epoca. Non c’è un solo costume che non sarebbe stato possibile negli anni Dieci, non c’è un solo bottone anacronistico – te lo giuro. I luoghi sì ma per forza perché abbiamo scelto di girare in Germania nel 1983. Qui abbiamo fatto una scomessa tentando di paragonare gli Stati Uniti dell’epoca con l’Amburgo di sei anni fa. E siccome non volevamo ricostruire niente in interni ma cercare anche per un ascensore, per qualsiasi angolo del film, spazi della vita e della città contemporanea – allora abbiamo scelto Amburgo. Io non sono “strabico” bensì rimango straubiano. Sì d’accordo – in questo caso c’è una contraddizione ma credo che ogni film interessante viva solo di contraddizioni…
(da “Lasciar nascere un testo come ritmo”. Una intervista pubblica con Jean-Marie Straub e Danièle Huillet)