Eternity di David Freyne

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La curiosità e l’immaginazione che ne scaturisce rispetto alla prospettiva di quello che potrebbe accadere dopo la morte o, più precisamente, dopo il passaggio sulla vita terrena, prendendo per buona aprioristicamente una concezione fideistica e trascendente, non sono certo nuove alla rappresentazione che il cinema ha cercato di darne, in particolare quello di produzione anglofona, probabilmente più portato a cercare soluzioni concrete e intellegibili perfino sulle questioni che riguardano i massimi sistemi. Eternity, fin dal solenne titolo, si immette in questo filone che ha tra i suoi capostipiti, almeno su un piano di risultati estetici e narrativi, Scala al paradiso (1946) di due grandi cineasti visionari e affabulatori come i britannici Michael Powell ed Emeric Pressburger: David Niven, nel ruolo di una pilota inglese colpito da un aereo avversario durante la seconda mondiale, si trovava infatti ad essere conteso tra l’aldilà che, in nome di una giustizia post umana, ne rivendica l’appartenenza in quanto ufficialmente morto, e il mondo delle passioni e dei desideri nel quale scopriva qualcosa di più forte di qualsiasi vincolo, convenzione o regola divina, ovvero l’amore incarnato nelle sembianze incantevoli della ragazza (della porta) accanto (Kim Hunter). Nell’opera terza dell’irlandese David Freyne la porta d’accesso per la realtà postuma non ha però la tensione visionaria e onirica dell’opera di Powell-Pressburger, e non ha intenzione di ricercarne neanche l’altezza e la vertigine.

Gli anziani coniugi Joan e Larry sono una coppia ordinaria, con tutti i bisticci, le incomprensioni, le tenerezze e le intese compartite in sessantacinque anni di matrimonio. Quando Larry muore per un futile motivo di gola (si strozza con un pretzel ingoiato troppo voracemente, e già questo sciocco incidente mortale offre un’idea del tono leggere e paradossale dei personaggi e del racconto), si ritrova su un treno che lo porta in una specie di purgatorio, costruito come una via di mezzo tra la sala d’attesa di una stazione ferroviaria o di un aeroporto e un hotel affittato per un qualche congresso aziendale , con una serie di stand a tema allestiti per l’occasione. Ma quello che viene promosso, raccontato, pubblicizzato non è tanto un tema, una riflessione, un dibattito per acquisire consapevolezza su ciò che, oltretutto nel caso di una morte accidentale, è successo cosi repentinamente. L’eternità è un prodotto da vendere nella multiforme scelta di paesaggi prefabbricati e monotematici seguendo le preferenze dei deceduti, che possono includere condizioni climatiche, interessi culturali, ambientazioni epocali e logistiche. È  concesso addirittura presentarsi nell’età più piacente del proprio corpo, senza perdere l’opportunità sensoriale di esperire il piacere come il dolore, anche se questo privilegio sembra  funzionale al farli restare soggetti consumanti in perpetuum di stimoli edonistici. Il processo di adattamento alla nuova condizione consiste fondamentalmente nell’individuare la situazione più adatta a se stessi, con l’aiuto di consulenti personalizzati, tanto simili a quelli di un’agenzia di viaggi, che accompagnano il neo defunto in questo districamento, non senza le complicanze o gli imprevisti della vita appena lasciata, mentre in un senso più strettamente drammaturgico sono le classiche spalle dei protagonisti, i caratteristi della screwball comedy, con il tempismo in canna della battuta tagliente o del commento corrosivo.

                       Callum Turner e Elizabeth Olsen

L’aspetto inquietante, non si capisce quanto fatto  intenzionalmente o derivato da un corto circuito interno alla messa in scena , di questo dispositivo narrativo e  figurativo risiede soprattutto nel limite imposto a quella stessa immaginazione/curiosità della quale si parlava all’inizio. Nel momento in cui ci si trova di fronte alle infinite e fantasmagoriche possibilità che quel concetto reiterato all’infinito nel tempo e nello spazio, Eternity, è potenzialmente in grado di esprimere, quello che viene enfatizzato e sottolineato è il ritorno ad una (ri) conosciuta, rassicurante, tradizionale necessità  di somiglianze e di riscontri perfino in quegli elementi più problematici e irritanti della quotidianità, come la burocratizzazione fatta di attese, cavilli, procedimenti. Con la sensazione che, sotto la comprensibile smania di consolazione,  si voglia omettere il terrore per un confronto più profondo con il mistero inspiegabile e inimmaginabile della nostra dipartita, tanto da ridurlo a uno slogan e a un progetto grafico impressionabile e stampabile in serie su un depliant illustrato. Freyne cerca forse di bucare l’involucro a circuito chiuso e sistematico di un settimo cielo organizzato sul capitalistico rapporto tra domanda e offerta, introducendo la forza deflagrante del sentimento amoroso e delle traiettorie che si porta dietro, in particolare gli sviluppi non esplorati di una relazione interrotta. Cosi nel momento in cui Joan, che sapevamo già essere malata terminale di cancro, raggiunge Larry, l’apparentemente scontato felice finale di un ricongiungimento nel microcosmo scelto insieme per sempre viene scombussolato dall’apparizione di Luke, il primo marito  (i legami sono rigorosamente definiti dal loro status formale oltre che dall’affiliazione emotiva…) quasi post adolescenziale di lei, morto troppo presto, soldato durante la guerra in Corea. La donna si trova così a scombinare le pianificazioni di tutte e tre le parti di quel non previsto triangolo, e  in particolare il progetto ostinato e costante  di Luke che, fin dal giorno della sua morte, aveva deciso di aspettarla per passare con lei il resto di quell’esistenza dove non ci sono ore.

A questo punto si entra in un andirivieni tra l’uno e l’altro, il giorno e la notte, il mare e la montagna, la sicurezza dell’amore divenuto senile e l’eccitazione di quello rimasto giovane; e  sia i molti dubbi che le poche certezze corrispondono per Joan a uno scenario ipotizzabile, eccezionalmente da esperire prima della decisione finale (che non ammette ripensamenti, pena l’eternità oscura del nulla). Per protrarre fino allo sfinimento dell’ultima inquadratura, che è anche l’apoteosi iconografica del quadro-cornice e contenuto-domestico/familiare- si passa per l’attraversamento e il superamento di una carrellata di detour materializzati sotto forma di porte, finestre, armadi e binari che sembrano un sunto, piuttosto impoverito, di una trentina  d’anni di cinema fantasy statunitense. Da Prossima fermata: Paradiso (1990) in cui Albert Brooks faceva i conti con gli impedimenti delle sue nevrotiche paure per prendere  un livello superiore della vita ultraterrena, fino ad arrivare alle architetture cerebrali e  proliferanti immaginari e prospettive del Charlie Kauffman scrittore (Essere John Malkovich di Spike Jonze e Se mi lasci, ti cancello di Michel Gondry) e regista (Synecdoche, New York, Sto pensando di finirla qui). Perché, pur non affrontando in maniera letteraria e pedante il pensiero dell’afterlife, Kauffman ha mostrato la multidimensionalità delle categorie dello spazio e del tempo, nelle cadenza di elegie struggenti, grottesche, surreali, con ancora l’amore e le sue poliedriche manifestazioni a fare da propulsione per ogni scintilla trasformativa e da ripiegamento per ogni fuga regressiva; mantenendo la lucidità amara di un punto di vista estraneo, come se stesse osservando una casa di bambole o uno spettacolo di marionette, che a Freyne, magari troppo coinvolto visto l’argomento o semplicemente con la volontà di chiudere questa storia di gente comune tra l’angolo e l’incrocio di una strada di quartiere.
Sarebbe stato troppo chiedere alla sempre brava Elisabeth Olsen, che interpreta Joan, di optare per una conclusione magari troppo pretenziosa per il film in questione  ma cosi in linea con la cultura di provenienza e appartenenza del suo regista-sceneggiatore: lo struggimento di Gretta nel racconto The Dead (da Gente di Dublino) di James Joyce, che ascoltando una canzone, rievoca e rimpiange quel suo innamorato rimasto eternamente diciassettenne,  morto forse a causa dell’assoluta devozione verso di lei. Una perdita che resta tale nella pienezza, e che non può essere mitigata dalla proiezione e dalla prospettiva di nessun universo saturo di fondali dipinti o di cieli color vaniglia al tramonto di un focolare.

43° Torino Film Festival (Film d’apertura)
In sala dal 4 dicembre 2025.


Eternity ; regia: David Freyne; sceneggiatura: Pat Cunnane, David Freyne; fotografia: Ruairi O’Brien ; montaggio: Joe Sawyer; musica: David Fleming; interpreti: Elizabeth Olsen, Miles Teller, Callum Turner, Da’Vine Joy Randolph, John Early, Olga Merediz; produttori: Trevor White e Tim White per Star Thrower Entertainment; distribuzione: A24;  origine: USA, 2025; durata: 114 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

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