Etica, psicologia, estetica? Melodramma o thriller? A proposito de La stanza accanto di Pedro Almodóvar

Conosco pochi o comunque ricordo pochi film sulle malattie terminali, cercando in rete se ne trovano decine, non mi stupirei che qualcuno li avesse già studiati anche a livello accademico, sottolineandone le costanti, le varianti strutturali e di genere (tragedia, melodramma, in alcuni rari casi anche commedia). Quanto dirò è dunque il frutto di una serie di riflessioni generali e testuali, legate alla visione dell’ultimo film di Pedro Almodóvar La stanza accanto (The Room Next Door) e all’impressione controversa che mi ha lasciato.

Partirei provando a dire che cosa il film del regista spagnolo (si tratta del suo primo lungometraggio in lingua inglese, com’è noto) NON è.  La stanza accanto NON è un film che interroga il senso etico dello spettatore, cioè non è un film in cui si viene interpellati circa la liceità della decisione di Martha (Tilda Swinton) di abbreviare la propria agonia e di procedere, tramite pillola acquistata nel dark web, all’eutanasia, provando a tenere in mano le redini di quel che resta della propria vita senza lasciare che la malattia abbia il sopravvento ancor più di quanto il destino le ha crudelmente imposto. Sempre restando a Martha, non viene nemmeno, per converso, posta la questione se sia legittimo chiedere all’amica Ingrid (Julianne Moore), in generale a un’amica, una tal prova di solidarietà o, diciamolo pure, di amore (termine che ricorre, seppur non di frequente), lo stato di eccezione in cui versa Martha la legittima, per così dire, a tutto, ciò che emerge al più tardi quando Martha dice a Ingrid: se la situazione ti tende troppo, prendi queste pillole che così ti calmi.

E nemmeno la sofferta decisione di Ingrid di accettare la proposta dell’amica di starle vicina fin quando arriverà il fatidico momento viene mai messa in discussione, le alternative all’accettazione nel film non si pongono proprio (dissuaderla o peggio ancora denunciarla), l’unica questione rilevante è quella diciamo così, psicologica, ovvero: avrà il coraggio Ingrid di superare questa prova? Sarà sufficientemente forte da poter sostenere questo peso? Quali strategie comportamentali adotta che fungano da contrappeso al gravame di questa decisione? Degli aspetti psicologici che poi inevitabilmente diventano gli aspetti strutturali, narrativi, estetici del film, parlerò fra un attimo. Concludo invece questo primo punto esprimendo il mio plauso sulla totale assenza, nel film, di quella che ho chiamato un’interpellazione etica.

Almodóvar si rivela in fondo artista di derivazione illuminista che sposa, senza riserve, il principio di auto-determinazione del soggetto. Un atteggiamento, questo, dimostrato ex negativo dalla caratterizzazione del tutto priva di potenzialità empatiche dell’unico personaggio che all’interno del film la questione etica invece la pone, ovvero il poliziotto che cerca, al termine del film, di colpevolizzare Ingrid, provando a farla cadere in contraddizione, da posizioni, per ragioni professionali, legittime in quanto titolare dell’inchiesta, e sul piano religioso piuttosto incline a un certo oltranzismo. È, credo, evidente, che l’assenza di un’interpellazione etica deriva dalla completa assenza di una dimensione religiosa all’interno del film, non c’è nessun Dio a cui lasciare la decisione esclusiva di decretare quando una vita finisce.

Passiamo alla questione riguardante la plausibilità psicologica del film, partendo dalla seconda parte di La stanza accanto, cioè quando le due amiche si trasferiscono a Casa Szoke, lo splendido edificio vicino all’Escorial progettato dallo studio madrileno Aranguren & Gallegos. La questione dominante, mi pare, è come fa Ingrid a reggere questa attesa estenuante e le strategie che mette in atto mi paiono altamente plausibili: malgrado il divieto di Martha si confida con Damien (John Turturro) per condividere il gravame, fa un po’ di attività fisica (e anche con il personal trainer, perfetto sconosciuto, in qualche modo si scarica del peso), all’occorrenza, come le suggerisce Martha, si impasticca – e poi c’è l’arte che allevia, ovvero in prevalenza i film: Buster Keaton, Max Ophüls (Letter From an Unknown Woman) e sempre e di continuo The Dead di James Joyce (oltre al racconto, anche il film di John Huston). Tutto, come dicevo, estremamente plausibile, con un’aggiunta, forse leggermente cinica, che non andrebbe del tutto sottovalutata e a cui, nel prefinale, reiteratamente si allude: il gravame di Ingrid potrebbe essere, inconsciamente, compensato dalla prospettiva futura di trarre nutrimento estetico dall’esperienza vissuta trasformandola in testo (il tema viene affrontato direttamente anche dalle amiche, Martha tranquillizza Ingrid, una volta che sarà morta, la sua vita e anche il suo lascito sarà a sua disposizione), ciò che avviene puntualmente allorché Ingrid “riscrive” variando le righe finali di The Dead.

Julianne Moore e Tilda Swinton

Dove il film, sul piano psicologico, e per conseguenza anche strutturale, narrativo, estetico non funziona è nella prima parte, quando nei primi, mal contati, quindici minuti ci viene snocciolata tipo fuoco di fila una quantità industriale di dialoghi che neanche Woody Allen (per restare a New York) o Eric Rohmer (per alludere all’Europa da cui Almodóvar proviene): la malattia di Martha, le reiterate visite all’ospedale da parte di Ingrid, un bel po’ di flash-back, francamente bruttarelli (il ritorno del reduce dal Vietnam affetto da PTSD, la guerra in Irak con i carmelitani gay, un tributo, a mio avviso, inutile ai temi cari a Pedro), il tutto a cercar di rendere plausibile la riconquistata dimestichezza fra le due amiche che si erano perse di vista, senza che, peraltro, ci fosse stato un litigio o cose del genere. Pur comprendendo il desiderio del regista manchego di uscire dal Kammerspiel della relazione, malgrado  Aranguren & Gallegos, claustrofobica fra le due amiche, resta il fatto che uno dei principali difetti del film è, a mio avviso questa voglia di riempire artificialmente di contenuti storici, politici la vicenda principale: la guerra in Vietnam, la guerra in Iraq, l’impegno ecologista di Damien, le conseguenze della pandemia, il film sembra a tratti una sorta di catalogo tematico globalizzato che francamente stride con la poetica di Almodóvar che è abituato, solitamente, a parlare di cose che ben conosce, mentre qui fa tanto l’effetto di un dictionnaire des idées reçues.

Vorrei affrontare un ultimo punto: come si colloca La stanza accanto nella filmografia di Almodóvar, soprattutto in termini di appartenenza a un genere? Sappiamo che il genere maggiormente praticato dal regista spagnolo è il melodramma, un melodramma caldo e freddo al tempo stesso, di cui è divenuto nel corso dei decenni un indiscusso maestro. Possiamo considerare anche quest’ultima opera un melodramma? Qualche elemento indurrebbe a pensarlo. Sul piano formale: l’uso super-espressivo del colore di derivazione, non da oggi, sirkiana, nella tradizione dello woman’s film, di cui con certezza questo film rappresenta un degno esempio; l’uso della colonna sonora volutamente eccessiva; sul piano dei contenuti: temi estremi come l’amore, l’amicizia, la morte, il tradimento. Manca forse – ma in parte ciò rientra nel raffreddamento a cui in Europa si è provato, almeno da Fassbinder in avanti, a sottoporre la versione hollywoodiana del melodramma – l’espressione di sentimenti forti, la presenza dei corpi nella loro più sanguigna fisicità, le due donne si toccano poco, piangono poco. Chi va a vedere questo film per piangere, per tornarsene a casa con la sana vecchia catarsi di matrice aristotelica, resterà deluso.

Mi pare che il genere, anche qui soprattutto dalla seconda parte del film in avanti, a cui viene più spontaneo ricondurre La stanza accanto è invece il thriller, ciò che rende la seconda parte molto più bella della prima: lo spettatore non può non adottare, da un certo momento in avanti, il punto di vista di Ingrid, la sua paura di trovare la porta chiusa, segno che Martha ha deciso di andarsene, per non parlare delle sequenze finali dalla polizia, quando si finisce per aver paura che Ingrid riveli di aver saputo tutto fin dall’inizio. A me è piaciuto più il thriller del melodramma, caldo o freddo che sia. E, com’è noto, anche a Hitchcock piacevano da matti le case moderniste.

In sala dal 05 dicembre 2024


La stanza accanto (The Room Next Door) – Regia e sceneggiatura: Pedro Almodóvar ispirato al racconto What Are You Going Through di Sigrid Nunez; fotografia: Eduard Grau; montaggio: Teresa Font; musiche: Alberto Iglesias; scenografia: Kendall Anderson, Carlota Casado, Iker Elias; costumi: Bina Daigeler interpreti: Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro, Alessandro Nivola, Juan Diego Botto, Raúl Arévalo, Victoria Luengo, Alex Hogh Andersen, Esther McGregor, Alvise Rigo, Melina Matthews; produzione: El Deseo; origine: Spagna, 2024; durata: 107 minuti; distribuzione: Warner Bros. Italia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *