Fassbinder di Annekatrin Hendel – per i quarantanni dalla morte del grande regista tedesco

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Ho sempre avuto l’impressione che entrare dentro l’immaginario di Rainer Werner Fassbinder, al di là di quello che ha eloquentemente mostrato nei densissimi, fiammeggianti  tredici anni della sua prolifica produzione artistica (dai primi corti, 1966, fino a Querelle, 1982) voglia dire ritrovarsi dentro una polifonia di voci e multiformità di volti e corpi, per lo più femminili, nel flusso rutilante di un caleidoscopio sostenuto dalla potenza del desiderio sentimentale e carnale, raggelato dalla lucidità dell’analisi storica e politica, tentato dalle derive visionarie di una morte evocata e insieme esorcizzata nella bulimia del gesto creativo .

A ciò mi ha fatto pensare l’inizio del documentario di Annekatrin Hendel, dal titolo perentorio, Fassbinder ( a cui si potrebbe aggiungere un  punto esclamativo per amplificare l’urgenza e la potenza espressiva che evoca quel cognome) con l’allestimento virtuale di un enorme set circondato da tanti schermi chiamati a parlare di lui, la figura di un ragazzo sfrontato, debordante nel corpo e nello spirito, eternamente impresso nel frame di una giovinezza che era già precocemente appassita a 37 anni da eccessi ed abusi di ogni tipo. E forse gli avrebbero fatto orrore queste celebrazioni post mortem e tutte in occasioni di ricorrenze.  Questo documentario è stato, infatti, realizzato nel 2015 per i 70 anni della nascita e esce ora in Italia, per i 40 anni dalla morte insieme (e come virtuale introduzione) a cinque film riproposti in sala grazie alla Viggo nelle versione restaurate della “Fassbinder Foundation”: L’amore è più freddo della morte (1969), Le lacrime amare di Petra Von Kant (1972),  La paura mangia l’anima (1973), Effi Briest (1974) e Il matrimonio di Maria Braun (1979).

Diciamo subito che proprio il modo in cui Hendel mette in relazione il materiale d’archivio del passato, talvolta  poco visto e davvero memorabile (la passerella di un Fassbinder esordiente, tra sfacciataggine e timidezza, fischiato al Festival di Berlino dopo la presentazione del suo primo lungometraggio, L’amore è più freddo del morte) con le interviste del presente agli amici e collaboratori sopravvissuti alla factory, contiene in sé una tensione emotiva che trascende la dimensione documentaristica e si avvicina, in un gioco di rimandi tra set cinematografico e palcoscenico della vita, a una sorta di appendice dell’opera fassbinderiana concepita come un continuum espanso nel tempo: un solo, lungo film diviso a episodi intrinsecamente legati l’uno con l’altro, come la fitta trama di relazioni che il regista bavarese aveva costruito intorno a se stesso, in un mix di generosità, seduzione e manipolazione. E se si trattasse di un romanzo, per intenderci, è come se fosse arrivato il momento delle note biografiche postume di un racconto che ha rielaborato in una nuova forma estetica e narrativa il feuilleton, De Sade, Brecht, la psicoanalisi ,il cinema sociale tedesco degli anni’20 e quello classico hollywoodiano degli anni’50 .

All’intensità crescente di un intreccio cosi stratificato eppure dinamico  non è certo estraneo il fatto che questo film sia stato prodotto in parte e coadiuvato nel montaggio da Juliane Lorenz , l’ultima compagna d’arte e di vita di Fassbinder, che rivendica di essere in qualche modo la destinataria  di un crepuscolare sogno di felicità ( l’immagine un po’ naif di lui che le dice “Vorrei vivere con te e con l’uomo che amo”) e che offre la chiave per comprendere non solo le testimonianze che ci sono e quelle che mancano, ma anche il tono, il sentimento, il significato di ogni presenza e di ogni assenza. Ci sono alcune delle donne che hanno incarnato la sua visione poetica e politica, a cominciare da una meravigliosa Hanna Schygulla colta nel fulgore autunnale della sua maturità , che rivela la dedizione e l’ammirazione per il cineasta e il rimpianto dei non detti e dei silenzi nel rapporto con l’uomo; c’è per la prima volta Margit Carstensen, più austera nel suo rigore da post Petra von Kant prosciugata di ogni lacrima e di ogni vezzo, che si fa voce intima e performante di un Rainer inedito, interpretando un testo mai pubblicato dedicato alla madre Lilo Pempeit in una sovrapposizione di identità e ruoli . E poi la smorfia sorridente di Irm Hermman, forse la più bistratta e maltrattata tra le Fraulein del clan , ma anche la prima a offrigli una prospettiva di casa  oltre lo schema della famiglia gabbia piccolo-borghese da cui tutti provenivano e da cui tutti volevano evadere (e proprio nell’appartamento di 30 metri quadri di Irm, Fassbinder, assieme al suo più fedele amico, complice, amante Peer Raben, diede corpo alla sua comunità forgiata nell’entusiasmo e nel furore di un padre/capo onnivoro e incestuoso).

Non compare Ingrid Caven , moglie/amica/confidente prima della Lorenz, che pure viene ricordata quasi come proiezione dell’altra donna, la Rebecca hitchcockiana protagonista di una versione di questa storia dove c’era ancora spazio per lo struggimento dilaniante e autodistruttivo di un individuo in lotta con i suoi demoni (il matrimonio con la Caven, per le persone più vicine all’entourage,  fu una messa in scena organizzata per vendicarsi di Gunther Kauffman, del quale RWF era perdutamente innamorato e non corrisposto) in contrasto con il tono da elegia malinconia di un’esistenza vibrante, scandita non a caso dal loop di un pezzo brutale ed energico dei Rammstein, gruppo metal tedesco contemporaneo ,fassbinderiano più nella sostanza  che nella forma (la visceralità di Rainer si esprimeva musicalmente nelle forme pop e raffinate del blues, del rock, della lirica).

Eppure, a dire quanto Hendel abbia scavato e lavorato dentro questo materiale , a un certo punto viene inserita la scena del mattatoio di In un anno con 13 lune , dove era proprio Ingrid Caven a interpretare la piccola prostituta cosi pietosa da ascoltare il monologo isterico e disperato della trans Elvira Weishaupt sulla carrellata dei corpi di bovini macellati e squartati; e non a caso si parlava, sotto traccia, del suicidio di Armin Meier, l’amante con cui, forse più di tutti gli altri,  Fassbinder  aveva riprodotto le dinamiche sadomasochistiche dei suo mélo cinematografici, portandone al grado zero della rappresentazione tutte le implicazioni politiche e personali nell’episodio di Germania in autunno, a cui giustamente Hendel dedica una lunga parte: i corpi di Rainer e Armin febbricitanti, irrequieti ed esposti in una nudità spoglia pur nell’abbondanza delle carni,  in un full frontal  dove il pene è metafora dell’ impotenza e della sconfitta  di un paese messo a ferro e fuoco dalla propria falsa coscienza democratica,  e dove la stessa classe intellettuale, di cui Fassbinder faceva parte, è compressa nel pensiero e nell’azione in abitazioni loculo incorniciate da porte e da finestre senza via d’uscita e senza prospettiva .

Era questo, viene detto nel documentario, lo sguardo più sconvolgente e desolante attraverso cui leggere l’escalation del conflitto militare tra la RAF, il principale gruppo terroristico tedesco, e lo Stato, ed era anche l’approccio più provocatorio e disturbante, perché faceva sentire come il cambiamento in una società più giusta ed equa, o meglio l’impossibilità di questo cambiamento, risiedesse tra le piaghe sanguinanti di un popolo schiacciato dalle macerie di un passato di colpa e vergogna . Cinema che si fa autoanalisi (dall’altronde lo stesso Fassbinder aveva dichiarato: “Quando la gente sta male va in terapia. Io faccio film”) ma in una maniera che esclude qualsiasi catarsi o consolazione, e costringe a confrontarsi con il peso di fantasmi e Doppelgänger ripetuti all’infinito da degli specchi imitation of life come mai si era visto prima e si sarebbe visto dopo.

Da sinistra a destra: Harry Baer, Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Irm Hermann.

E questo Fassbinder resta memorabile proprio perché, chissà quanto metalinguisticamente,  diventa a sua volta melodramma riflesso su un personaggio osannato e denigrato, amato e odiato, celebrato e rimosso dove la verità, semmai ce ne fosse una, non sta nelle parole delle quali lo stesso RWF ha sempre dichiarato la natura affabulatrice e (auto)ingannevole, ma va cercata nel mistero di un’espressione tra il sorriso beffardo e la smorfia amara , tra un’implorazione (Voglio solo che voi mi amiate) e un avvertimento (La paura mangia l’anima).

In sala dal 9 giugno


Fassbinder Regia: Annekatrin Hendel; sceneggiatura : Annekatrin Hendel e Juliane Lorenz; fotografia: Martin Farkas; montaggio: Luciana Pandolfelli; interpreti: Rainer Werner Fassbinder, Margit Carstensen,Irm Hermann,Juliane Lorenz, Hanna Schygulla, Harry Baer, Volker Schlondorff; origine : Germania, 2022; durata: 95′; produzione: Itworksmedien, Rainer Werner Fassbinder Foundation, Sudwestrundfunk (SWR); distribuzione: Viggo Film

 

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