Festa del cinema di Roma (15-26 ottobre 2025): Good Boy di Ben Leonberg (Alice nella città – Film d’apertura)

  • Voto


Che cosa direbbe Alfred Hitchcock  assistendo all’incredibile interpretazione di Indy, il cane protagonista assoluto di Good Boy, con il quale si apre Alice nella città? È celebre un adagio nel mondo del cinema, ripreso anche dal grande regista inglese, secondo cui  sarebbe meglio non  lavorare mai né con gli animali né con i bambini (anche se poi Gli uccelli smentirebbe l’una e l’altra regola d’oro, essendoci, oltre ai volatili assassini, almeno una ragazzina tra i personaggi principali). Oltretutto anche in quel caso si trattava di un horror con venature fantastiche, visto che la causa dell’impazzimento omicida degli uccelli contro gli esseri umani non sembrava avere una spiegazione realistica, se non la manifestazione e l’incarnazione di una sorta di simbolica piaga biblica. Il tono del racconto diretto e co-sceneggiato dall’americano Ben Leonberg, al suo esordio, presenta ugualmente una commistione tra elementi sovrannaturali e animalità, ma lo fa da una prospettiva completamente differente da quella non solo del grande Hitch, ma anche di molto cinema di genere che ha utilizzato gli animali come sintomi acuti della percezione dell’orrore, di qualcosa di spaventoso che si nasconde sotto il livello vedibile e comprensibile della realtà. Restando in tema “canino”, basti citare il feroce Cujo (1983), adattamento stephenkingiano di Lewis Teague, oppure i cani husky, sperduti, assieme agli scienziati e agli esploratori,  nella base ai confini dell’Antartide in La cosa (1982) di John Carpenter, i primi corpi attraverso cui l’entità aliena faceva la sua terrificante apparizione.

Indy al contrario ribalta questa associazione con la bestia assetata di sangue e interpreta il ruolo più classico e rassicurante, quello del miglior amico di un uomo, anzi forse anche qualcosa di più: il compagno fedele e premuroso che assiste fino all’ultimo sospiro e anche oltre l’amato essere umano Todd, colpito simultaneamente da una malattia terminale, terrena e sintomatica, e da una maledizione familiare ancestrale ed evocativa. A rimarcare la centralità di Indy non è però solo, e non soprattutto, la costruzione della trama ma, rimanendo sulla questione percettiva, fondamentale nel genere horror al quale questo film può essere convenzionalmente e non esaustivamente ascritto,  la focalizzazione del punto di vista. A partire dall’altezza della mdp a misura canina (non vedremo quasi mai in volto Todd), è lo sguardo di Indy ad (auto) orientarsi prima e a guidare lo spettatore poi nell’abissale viaggio del ragazzo che sceglie di passare gli strazianti ultimi giorni della propria esistenza nella casa della sua infanzia. E non si tratta di uno sguardo antropomorfizzato (l’unica soggettivazione umana che gli viene attribuita è il nomignolo del titolo) con la funzione di esplicare meglio certi passaggi narrativi e di inserire non fosse altro una visione più normata secondo le regole della fruizione omocentrica, seppur filtrata da un contro campo di altra natura e altro genere. I presagi, i rumori e le apparizioni che ben presto si infiltrano in quell’ isolata abitazione di campagna circondata da luoghi topos come il bosco e il cimitero sono captati e visti dal volto preoccupato, dolente, smarrito di questo Golden retriever, trapiantato dall’immaginario di Steven Spielberg dentro un contesto da Poltergeist, al quale reagisce con l’iniziale espressione di chi non comprende, proseguendo con il provare a mettere in atto una strategia di sopravvivenza per se stesso e il suo ospite, e terminando con l’accettazione di una separazione. La nostra prospettiva è dunque in tutto e per tutto quella di Indy: come lui, non capiamo perfettamente ciò che sta accadendo, da dove e perché vengono quelle presenze paludose e viscide che sembrano voler possedere il suo padrone Todd, condurlo e intrappolarlo in una dimensione sospesa tra il segno dei fenomeni vividamente naturali e le ombre di un’ oscurità non risolta, dentro il mistero di un abbandono del e di una sparizione dal mondo tangibile ed emerso.

Una vertigine che Indy, da buon animale, dissolve nella basica e nucleare forza e risolutezza devozionale, per niente attraversata dalle contorsioni psico-emotive degli esseri umani, dai sensi di colpa indotti e della frustrazioni generate all’interno del perimetro delle coercitive relazioni familiari, degli indissolubili legami di sangue. Scevro da qualsiasi condizionamento sociale, culturale e, manco a dirlo, antropologico, il rapporto uomo-animale può esplicarsi nella più assoluta declinazione del concetto di cura e di premura, addirittura ribaltando il cliché insano della simbiosi, della dipendenza che presuppone in maniera ineluttabile la morte dell’uno e quella dell’altro.

Con una sottigliezza di scrittura molto perturbante, Leonberg introduce anche un doppio nella situazione straordinaria che si trovano a condividere Indy e Todd; una coppia che prima di loro è stata inghiottita dalla voragine sotterranea dell’infestazione spiritica. Ed è proprio Indy, con gli occhi sempre spalancati su ogni dettaglio e sfumatura, ad accorgersi dell’analogia e a invertirne la direzione e l’esito. Questa forma di consapevolezza e di lucidità, l’intuire di trovarsi in prossimità di un dolore che può essere commensurabile solo alla perdita di un genitore, di un fratello o di una sorella, dell’amico più caro e dell’amore più grande,  e doverne affrontare le conseguenze, sembra essere il punto che interessa maggiormente a Leonberg, che utilizza lo scheletro di una classica ghost story per mettere alla prova la tempra di una relazione affettiva tanto ordinaria e comune, quanto eccezionale e radicata. Non si ricorre perciò al facile trucchetto di introdurre qua e la soggettiva ferina come avveniva in HachikoIl tuo migliore amico di Lasse Hallström (altra storia, ispirata a un fatto realmente accaduto, di ostinata e toccante devozione canina). Tutto  Good Boy è permeato del modo in cui Indy sente e osserva gli accadimenti che riguardano lui e Todd, come se ci trovassimo nella sua testa, fino al paradosso di vedere attraverso la (quasi) psicosi di un cane; si tratta infatti di una lunga soggettiva libera indiretta, con una vicinanza relativa e parziale al punto di vista di Indy, in bilico tra la ricostruzione sensoriale del suo campo percettivo e la messa in scena materica e riscontrabile di luoghi e situazioni. Il confine tra realtà e immaginazione trapassa, è non solo in senso figurato, sul volto di Indy in lampi di struggimento e di allucinazione, di immersione negli e di ritorno dagli inferni di una pena concreta e suggestiva insieme; un’ eventualità sopportabile solo dal pensiero proiettivo e fantasmatico che ci sarà sempre qualche posto a cui appartenere e qualcuno da cui tornare.


Good Boy – Regia: Ben Leonberg; sceneggiatura: Ben Leonberg, Alex Cannon; fotografia: Wade Grebnoel; montaggio: Curtis Roberts; musica: Sam Boase-Miller; interpreti: Indy, Shane Jensen, Arielle Friedman, Larry Fessenden; produzione: What’s Wrong With Your Dog?; origine: USA, 2022-25;  durata: 72 minuti; distribuzione: Midnight Factory.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *