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Voto
Grazie a IMDb si apprende che Christina Vandekerckhove, la regista belga di Milano, ha alle spalle un unico film, Rabot un documentario, e alcuni cortometraggi, dati che aiutano a capire che cosa funziona e soprattutto che cosa non funziona in questo film che, diciamolo subito, avrebbe avuto bisogno di una corposa cura dimagrante, perché i 119 minuti a cui ammonta sono troppi, soprattutto se commisurati da un lato a quanto ha da dire e dall’altro a come dice le cose (succede spesso che il passaggio da corto a lungo non riesca appieno).
Partiamo da che cosa il film ha da dire. È la storia di un ragazzino belga di dodici anni che si chiama, appunto, Milano. Il ragazzino, molto carino e riccioluto, è sordo, a nulla o a poco sono valsi gli interventi del padre, volti a cercare di ridurre l’impatto sociale e psicologico dell’handicap. Fra i capelli, per esempio, si intravedono come degli elettrodi bianchi che opportunamente collegati ad agli auricolari permettono di amplificare le voci e i suoni circostanti. Ma Milano ha pochissima intenzione di farne uso e spesso si isola (ciò che viene costantemente riprodotto dal sound design che sceglie la soggettiva acustica, come già era successo in Sound of Metal). Né il ragazzo ha la minima voglia di frequentare corsi di logopedia o se li frequenta non collabora.
Milano sta vivendo una fase di totale disorientamento, coincidente col principio dell’adolescenza, che lo fa di continuo oscillare fra le diverse figure che popolano il film. Innanzitutto il padre che, dannandosi l’anima e non senza scatti di ira, d’impazienza e sballi compensativi, si prende cura con molto amore di lui, lavorando come cuoco. Si prende cura di lui anche perché la madre è sparita fin da quando Milano era piccolo. Ma, quasi subito, nel film essa ricompare dal nulla; e il ragazzino ha una voglia matta di conoscerla e paradossalmente di aiutarla, visto che la donna è rimasta, ancora oggi, una persona complicata e borderline, che non sembra neanche troppo bisognosa né di perdono né di riscatto. E il padre non del tutto a torto vorrebbe che il figlio da questa madre stesse il più possibile alla larga. Poi c’è una terza persona, Renee – che si occupa di ingiunzioni di sfratto, una persona piuttosto algida e ricchissima, che vive in una villa con piscina, insieme alla madre alcolizzata (altro personaggetto niente male in questo campionario di naufraghi dell’esistenza) – la quale ha tuttavia istituito una relazione con il ragazzino, sostitutiva per entrambi: della madre assente o inaffidabile per lui, della mancanza di altri affetti da accudire per lei. E poi c’è un cagnolino randagio che Milano ha battezzato Happy (più wishful thinking di così si muore) e che costituisce l’unico elemento di continuità affettiva per il ragazzino, ma che il padre, e qui con tutta evidenza sbaglia, gli contesta non volendolo fare entrare in casa e che alla fine metterà in moto il tragico epilogo della vicenda.
Le costellazioni sono queste e il film le varia reiterate volte, senza grande costrutto e senza, da un certo punto in avanti, aggiungere elementi nuovi, incistandosi un po’ su se stesso, con uno sguardo alla fratelli Dardenne che vorrebbe altresì fornire uno spaccato di una società, quella belga, rigorosamente divisa in classi agli antipodi: ricchi ricchi o diseredati. Il ceto medio è il grande assente, un po’ come spesso succede nel cinema britannico. Bravi gli attori, ma, nel complesso, si tratta di quello che si è solito definire un film da festival, ritmo lento, poco dialogo (qui anche per ragioni oggettive), inquadrature lunghe, camera a mano.
Milano – Regia, sceneggiatura: Christina Vandekerckhove; fotografia: Frederic van Zandycke; montaggio: Jan van der Weken; interpreti: Basil Wheatley, Matteo Simoni, Alexia Depicker, Jo Deseure, Taeke Nicolai; produzione: Lunanime; origine: Belgio 2024; durata: 119 minuti.
