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Voto

Quante promesse si celano in questi cari tropici per la colombiana Ana María (Jenny Navarrete). Il suo volto si riflette su una vetrata, mentre l’immagine si allontana lentamente. È così che lo spettatore ha modo di intravedere l’oggetto del suo desiderio: un neonato. Originaria di Panama, ha lasciato la sua terra natale per sfuggire a ciò che considerava un vero e proprio castigo divino: l’infertilità. In pubblico, si accarezza la pancia insolitamente rotonda. Peccato che sotto la veste si celi non una vita in fieri, ma un panno.
La compassione generata dalla sua apparente gestazione non le procura solo insolite attenzioni, ma anche nuove opportunità lavorative. È così che viene assunta per prendersi cura di una signora di alta classe, le cui condizioni peggiorano a causa di una progressiva demenza. In questo modo, Ana María si infiltra silenziosamente come un parassita nello spazio di contraffazione per eccellenza: la casa borghese. Il suo obiettivo è chiaro: acquisire la documentazione necessaria per ottenere il riconoscimento come lavoratrice regolare con il permesso di soggiorno a Panama.
Nel misterioso giardino della villa, Ana María si staglia contro un sfondo sfocato. Mercedes, la donna che assiste, – la ricorderete? È la cilena Paulina García, Orso d’argento nel 2013 come migliore attrice per l’interpretazione di Gloria di Sebastián Lelio – la scruta con estremo sospetto, osservando ogni suo gesto come fosse un’entità estranea a quell’ambiente. Ma presto quel sospetto s’estende ben al di là di semplici occhiate e inquisitorie interrogazioni: come Ana María, anche Mercedes si rivela maestra nell’arte dell’inganno, prendendosi gioco della sua badante con continue insubordinazioni, costringendola a restare nel giardino sotto la pioggia torrenziale. Ma ciò che può apparire come malizia, in fondo, potrebbe non essere altro che una manifestazione della progressiva complicazione della sua malattia.
I comportamenti di Mercedes diventano ogni giorno più bizzarri: ingoia un insetto, si ricopre di marmellata rossa come in un rituale cannibalistico. Eppure, tra le pieghe del loro rapporto si inizia a scorgere un legame: un medesimo destino di castigo, di ingabbiamento, di mistificazione forzata che cela desideri inappagati e ferite non rimarginate, un castigo interiore. Come nei più intensi melodrammi, alla fine le due figure si rispecchiano l’una nell’altra.
Lo sguardo di Mercedes diviene sempre più smarrito, non sapendosi posizionare rispetto all’occhio della macchina. Nonostante la confusione in cui è avvolta, a tratti emerge una lucidità inaspettata, rapidamente malinterpretata come follia. Un’umanità tenace, che resiste fino all’ultimo respiro, finché ogni contraffazione non trova la sua conclusione nel silenzio eterno della morte. Tuttavia, qualcosa continua a parlare nel ricordo, in quel giardino dove Ana María tinge le unghie di Mercedes; un’eco di vita che parla oltre ogni contraffazione, al di là delle apparenti verità. Gli occhi di un pappagallo, una vita intraducibile, che fugge ogni logica discorsiva. Non serve, dunque, parassitare l’immagine materna: il desiderio di maternità è un’entità sfuggente, che trascende ogni castigo, ogni riflesso condizionato.
Querido Trópico – Regia: Ana Endara; sceneggiatura: Pilar Moreno, Ana Endara; fotografia: Nicolás Wong; montaggio: Bertrand Conard; scenografia: Oso Daniel Rincón; sonoro: Carlos García; interpreti: Paulina García, Jenny Navarrete, Juliette Roy; produzione: Isabella Gálvez per Mente Pública, Joan Gómez Endara per Big Sur Películas, Mansa Productora; origine: Panama/Colombia, 2024; durata: 108 minuti.
