Festival dei Popoli – 65° Edizione: Mother Vera di Cécile Embleton, Alys Tomlinson (Vincitore del Concorso Internazionale)

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Una tunica, visibile solo nell’orlo, si destreggia a passo felpato per le austere sale di un convento. Raggiunto il luogo di preghiera, la tunica si solleva, rivelando un fantasma. In realtà, Vera è fatta di carne e ossa, ma per accettare la vita nel convento, è costretta a negare radicalmente se stessa, a rendersi spettrale. Solo assumendo questa forma eterea potrà espiare le sue colpe. Ciò che all’apparenza potrebbe essere letta come una tipica storia di alienazione religiosa, mostra qui il suo lato positivo: l’accettazione di una temporalità altra, quella del convento con la sua rigida disciplina, i rituali quotidiani e i tempi stabiliti, ma soprattutto una luce che, filtrando dalle vetrate, illumina di speranza i disperati giunti in cerca di redenzione.

In questo spazio illuminato, Vera non è altro che un “respiro dell’oscurità”. Il netto bianco e nero che permea il film consente anche allo spettatore di immergersi in questa sacra temporalità, di accettare il tempo sospeso che caratterizza sia la vita monacale che l’esperienza cinefila. L’accettazione di questa dimensione temporale si accompagna all’accettazione dell’esistenza degli altri: così Vera si riflette nelle storie e nei dibattiti con altri detenuti giunti anch’essi in questa prigione aurea per purificarsi.

Qualcosa come una confessione comincia a delinearsi qua e là attraverso il voice-over. Non è tanto al prete o agli altri che Vera si rivolge chiedendo perdono per le proprie colpe, ma piuttosto allo spettatore. Così, la protagonista dispiega indizi sul suo passato, sulle colpe che l’hanno spinta a rifugiarsi in convento così giovane: un affare di droga, l’HIV, una relazione complicata con il fidanzato anch’esso finito in carcere. I sensi di colpa si accumulano, sommergendo la donna in questa nuova prigione linguistica, dove anche lo spettatore sembra rimanere intrappolato, impossibilitato a ottenere un quadro generale o una ricostruzione affettiva degli eventi.

Seppur gravide di poesia, queste parole sussurrate intimamente allo spettatore creano più distanza che connessione. Tuttavia, le due registe (la fotografa Alys Tomlinson e la documentarista Cécile Embleton, quest’ultima formatasi a Roma e dichiaratamente ispirata, tra gli altri, da Gianfranco Rosi) risultano molto capaci nel ridare immediata vita a questo corpo intrappolato nei ricordi. Così, nonostante i tentativi della protagonista di riavvolgere il nastro del passato, il film rimane ancorato al presente, tentando di guidare l’eroina verso un nuovo orizzonte: ecco che si apre una via verso l’incontro con un fuori, la natura, un cavallo.

È proprio questo incontro a condurre la protagonista verso un brusco, e fin troppo didascalico, stacco dal B&N verso il colore, verso la libertà. Vera brucia gli abiti, e le consuetudini, della vita monastica per riscoprire se stessa non più nei rituali imposti del convento, ma in quelli della vita naturale. Lei è ancora completamente dipendente, ma ora con una rinnovata disciplina. Il film non risolve nemmeno la sua prigione linguistica, lasciandola prigioniera nel suo incessante mondo di pensieri. Come può, allora, essere interpretata questa storia di redenzione che si compie solo attraverso nuove dipendenze? Se da un lato le registe riescono a dissolvere esteticamente il soggetto in una nuova temporalità, dall’altro, ciò che emerge non è esattamente un nuovo soggetto, bensì un’entità ancora nebulosa. Essa necessita ancora dell’epiteto “madre”, di una “madre natura” di cui deve accettare la discendenza, la disciplina, la temporalità.


Mother VeraRegia: Cécile Embleton, Alys Tomlinson; fotografia: Cécile Embleton; montaggio: Romain Beck; suono: Leonardo Cauteruccio; produzione: Laura Shacham per She Makes Productions; origine: UK, 2023; durata: 87 minuti.

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