Pasquale Abatangelo, fiorentino, trai fondatori dei NAP (Nuclei Armati Proletari), protagonista negli anni Settanta della lotta armata, ha poi intrapreso un tormentato viaggio attraverso le rivolte nelle carceri italiane volte al miglioramento delle condizioni dei detenuti politici – un percorso segnato da violenze perpetrate dalle Guardie carcerarie. È questa la storia al centro del documentario ibrido di Tomaso Aramini, presentato nel “Concorso italiano” del Festival fiorentino, che intreccia interviste, ricostruzioni performative, materiale d’archivio e facendo interagire il protagonista con il giornalista Fulvio Bufi e con attori e attrici. Il film ha subito suscitato polemiche da parte di alcuni esponenti politici locali. Il titolo si ispira al nome della moglie del protagonista, morta nel 2018 e rimasta, fino all’ultimo, vicina al marito. Abbiamo deciso di intervistare il regista per dare attenzione alle scelte di messa in scena utilizzate per raccontare la verità di Abatangelo: l’etnografia performativa.
Domanda: Qual è stato il tuo intento nel narrare la storia di Pasquale Abatangelo?
Tomaso Aramini: Mi interessava il punto di vista dal carcere, di cui Abatangelo è un esempio paradigmatico: la prospettiva claustrofobica conseguente a una vita confinata. Gli anni ’70 sono stati raccontati spesso al cinema dalla piazza; qui si raccontano dalle celle.
Nel film si inquadra storicamente la situazione delle carceri, contestualizzandola anche in un’ottica transnazionale (Attica, Jackson) e mettendo in luce forme di aiuto reciproco tra detenuti, solidarietà, lotte comuni, anche intellettuali.
Il nuovo marxismo degli anni ’70, partendo dalle esperienze di lotta anticolonialiste, iniziò a guardare con interesse ai “Dannati della Terra”, per citare Fanon, ovvero il sottoproletariato, gli extra-legali, le minoranze, i popoli del sud del mondo. Negli USA, in piena epoca di segregazione razziale, la parte più avanzata della popolazione afroamericana si organizzò nelle Black Panthers, proponendo una profonda rivoluzione sociale nel Paese. In Italia, gli studenti guardarono con molto interesse a questa esperienza, individuando nei delinquenti comuni (data anche l’estensione dei fenomeni malavitosi) i nuovi alleati di classe; l’incontro non più teorico, ma pratico, avvenne nelle carceri – come testimonia il mio film – allorquando, dopo i primi scontri di piazza, gli studenti iniziarono a dialogare con i delinquenti. La connessione è quindi teorica ed esistenziale e credo fosse necessario riportarla nel film, data anche la rilevanza che ebbe nella vita e nelle scelte di Abatangelo. “Noi, in un paese di bianchi, eravamo trattati come i neri”, dice a riguardo. Un’affermazione molto forte.
Per ricreare la prospettiva di Pasquale Abatangelo, hai scelto di avvalerti dell’etnografia performativa, coinvolgendo il giornalista Fulvio Bufi per bilanciare il punto di vista del protagonista e stimolare il dibattito. Come hai condotto la ricerca storica sull’argomento prima di realizzare la performance?
La ricerca è durata quasi cinque anni, sviluppando con il mio protagonista un rapporto di fiducia per costruire un’indagine dialettica sulle sue scelte e poterlo porre in una posizione riflessiva. Ho fatto ciò che fa un ricercatore; oltre al lavoro di campo con Pasquale, la lettura dei documenti politici dell’epoca – fondamentali per ricostruire i dialoghi – dei giornali e della storiografia più recente sulla materia. Prezioso il confronto costante con Fulvio Bufi, specie nelle parti di contrapposizione politica. La mia volontà era quella di uscire dalla classica cronaca per entrare nella Storia. Per quanto riguarda la dialettica politica nel film, io e Fulvio non abbiamo fatto delle scelte quantitative – controbattere a ogni singola affermazione di Pasquale – ma qualitative, spesso decise sul set; esse sono nate dal vivo lavoro intellettuale che l’esperimento ci richiedeva. Generalizzando, posso dire che ci siamo concentrati sugli snodi più critici della vicenda di Abatangelo. Lo spettatore, ritengo, avrà tutti gli elementi per formulare un giudizio complessivo maturo.

Come hai pensato alla messa in scena del re-enactment? È una prassi molto utilizzata nel documentario americano, e il tuo film presenta un certo romanticismo americano, soprattutto nel rapporto, in stile “Bonnie & Clyde”, tra Pasquale e Anna.
La messa in scena è conseguente all’approccio etnografico performativo del film. La struttura della mia regia nasce e si dialettizza con l’impegno sociologico che esso richiedeva, da cui ne conseguono le scelte tecniche. Volevo misurare la metrica della coscienza di un uomo – Abatangelo – mano a mano che torna a rivivere la sua vita e su di essa è chiamato a riflettere. È una struttura anti-metafisica e anti-formale, orgogliosamente modernista. Più che ai cosiddetti prodotti factual, ho guardato al teatro di Bertold Brecht. Potrei dire che l’intento era quello di sviluppare una soggettività critica agli occhi dello spettatore; ecco quindi la contrapposizione straniamento-mimesi. Il rapporto di Anna con Pasquale è stato, posso dirlo senza ombra di dubbio, come l’ho raccontato nel film. Prima di essere un regista, sono un ricercatore e il primo dettame è essere etici e rigorosi. Se è apparso romantico, è perché quel rapporto lo è stato, peraltro con molte sorprese, che qualche spunto di libertà personale e affettiva nei rapporti privati forse ce lo può restituire.
La presenza di Abatangelo al Festival dei Popoli ha sollevato proteste dalla sponda destrorsa della politica locale, di cosa è indice questa contestazione?
La polemica me l’aspettavo. Ci tengo a precisare che Abatangelo è stato invitato al Festival esclusivamente dalla produzione, conseguentemente all’approccio etnografico performativo del film. C’è stata una strumentalizzazione politica della vicenda da parte della destra toscana per meri fini di propaganda, sia contro la maggioranza sia contro il sistema di finanziamenti pubblici alla cultura e, nella fattispecie, al cinema indipendente; un cinema d’impegno come Pensando ad Anna, che stimola il dibattito civile di questo Paese e che, se proposto al pubblico, trova risposta e curiosità, come dimostra il sold out del nostro film alla prima. Abatangelo e il film sono stati il veicolo di questa polemica speciosa. Invito coloro che hanno montato la polemica a guardare il documentario, visto che non l’hanno ancora fatto. E che si possa parlare del film come oggetto documentaristico su fatti di 50 anni fa.
Pensando ad Anna – Regia e sceneggiatura: Tomaso Aramini; fotografia: Peter Zeitlinger; produzione: Tomaso Aramini, Giovanna Crispino, Gaetano Di Vaio, Peter Zeitlinger, Silvia Zeitlinger per Method, Bronx Film, Mali Pegasus; origine: Italia, 2024; durata: 95 minuti; distribuzione: Nomad Film Distribution.
