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Sinistre ombre danzano tra i tronchi di una foresta, una luce intermittente emanata da una sconfinata potenza. Una cattedrale dell’energia si sforza di adempiere al supremo compito: portare il sacro fuoco del Sole tra gli esseri umani, attraverso il mistero della fusione nucleare. Le onde elettromagnetiche emettono suoni stridenti, risvegliando umani accovacciati nell’erba. Un nuovo Fitzcarraldo si erge sopra la valle, stagliandosi contro questa forza divina.
G. K. vive con la sua famiglia in una valle remota delle Alpi piemontesi, distante dalle dinamiche del mondo industriale. Alle utopie nucleariste che promettono una produzione illimitata di energia per una popolazione sempre più affamata di risorse, la famiglia K risponde abbracciando pratiche di autosufficienza, sognando di dar vita a una comunità neo-rurale in Canada. Non sono del tutto scettici nei confronti della tecnica: li vediamo infatti trasportare il fieno per le alture tramite carrucole. Ma soprattutto, li osserviamo dedicarsi alla musica: G. al pianoforte e la figlia al violoncello. Si cita anche Joseph Beuys: “Ogni persona è un artista”. In ognuno di noi si cela quindi la capacità di plasmare se stesso.
Ci si chiede a cosa si opponga questo delirio di auto-fondazione, se non a un mondo industriale che incessantemente crea nuovi bisogni, generando così un’umanità passiva di fronte al progresso tecnico. G. tenta di armonizzare la vita umana come le corde di un pianoforte. Sogna una scienza al servizio delle arti umane, esattamente come auspicava il naturalista Alexander von Humboldt, sulle cui orme il film stesso si incammina tra le pagine del suo Kosmos, mentre segue il viaggio di enormi magneti trasportati su navi cargo fino al porto di Marsiglia, per poi essere assemblati all’interno dell’International Thermonuclear Experimental Reactor, avanguardistico laboratorio dedicato alla sperimentazione della fusione nucleare.

Kosmos come ordine dell’universo in un’epoca di totale sbilanciamento tra le forze umane e le capacità di sostentamento del pianeta. Ma anche come cosmèsi, ornamento. Così, attraverso un gesto scultoreo, il montaggio cerca di scolpire un rapporto dialettico tra due forme di vita distinte ma speculari. Si tratta, per usare un termine di Stefano Levi Della Torre tratto da un precedente film di Masi (Lucus a Lucendo), di “divergenze specchianti”, dalla cui giustapposizione emergono tracce arcaiche di una comune mitologia, di un’originale pulsione prometeica. Ne deriva un film-specchio in cui l’immersione nella comunità neo-rurale alpina si contrappone all’esplorazione della cattedrale ITER.
Questa divergenza si esprime registicamente attraverso due opposti movimenti di camera, che riflettono le diverse modalità di attraversamento dello spazio: la famiglia K. è seguita orizzontalmente, mantenendosi così sempre sul piano della terra. È questa che impone i piani di ripresa, in particolare nei pericolanti piani obliqui quando si affrontano gli scoscesi terreni alpini; al contrario, il mastodontico impianto nucleare è esplorato verticalmente, esaltando la monumentalità dell’opera umana, ma seguendo anche i grigi fumi sollevarsi nel cielo per poi innervarsi nel suolo circostante. Ecco che questo protendersi verso il sole del progresso umano finisce per contaminare la terra.
Sospinto dalle musiche d’ispirazione glassiana di Fabrizio Puglisi, il film vira verso il poema sinfonico per mostrare in controluce l’inferno di un mondo asservito al Mefistofele dell’industria sur-capitalista. A differenza di un altro sinfonista, come il Kossakovsky di Architecton, che tenta di render conto di questa “vita in tumulto”, Masi non punta a rianimare la materia, ma a riattivare la coscienza umana davanti a una materia (l’uranio) di cui percepiamo solo il potenziale energetico, trascurando le devastanti conseguenze ecologiche.
Come già in Shelter, Enrico Masi, uno dei pochi avventurieri globali tra i registi italiani, delinea visivamente un viaggio transnazionale senza mai fornire un piano d’insieme. E quando ci viene presentata una mappa, essa ci appare come uno scheletro incomprensibile di una Babele ipertecnologica. Attraverso lo sguardo dell’ingegnera nucleare Irene Zammuto la camera si addentra genuinamente stupefatta nell’avanzatissima strumentazione dell’ITER; ma, come nel Solaris tarkovskijano, più ci si immerge nel linguaggio ultra-specializzato della scienza, più si perde il contatto con il vuoto interiore che alberga nell’animo umano. Così, nel nucleo generativo dove si plasma l’energia solare, un brusco stacco ci riporta a una strumentazione primitiva, un’idea primordiale, la possibilità di plasmare la vita diversamente.
Terra incognita – Regia: Enrico Masi; sceneggiatura: Enrico Masi, Stefano Migliore; fotografia: Stefano Croci; montaggio: Benni Atria, Carlotta Guaraldo; musiche: Fabrizio Puglisi; interpreti: Famiglia K., Laban Coblentz, Claire Coblentz, Irene Zammuto; produzione: Stefano Migliore per Caucaso, Loïs Rocque per Les Alchimistes, Rai Cinema; origine: Italia/Francia, 2024; durata: 91 minuti.
