Festival del cinema tedesco (Roma 20-23 marzo 2025): In Good Faith di Frauke Lodders

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Le chiamano chiese libere evangelicali, hanno origine dalla tradizione protestante, e gli adepti appartengono a piccole comunità  cercando di vivere la fede in ogni atto della loro vita quotidiana, richiamandosi costantemente a Gesù e a Dio. Una vita, apparentemente gioiosa fatta di canti e preghiere, ma in realtà letteralmente costellata di divieti e di imposizioni, di un tremendo senso del peccato, di un uso coercitivo e terroristico della confessione (che in realtà nel Protestantesimo non rientrerebbe affatto fra i Sacramenti), di un’ossessione della colpa, redimibile solamente chiedendo costantemente perdono a Dio. A quanto sembra queste comunità – ma verrebbe tanta voglia di chiamarle sette – non rifuggono neanche da esorcismi, perché ogni devianza dell’individuo viene attribuita alla possessione, alla presenza di spiriti malvagi che si sono, per così dire, introdotti nel soggetto. Inutile negarlo, un autentico incubo. E infatti se lo scopo di In Good Faith (in tedesco Gotteskinder, ovvero Figli di Dio) era quello di ingenerare nello spettatore un senso di oppressione, va detto che la regista Frauke Lodders (1984), al suo secondo film, ci è riuscita appieno.

La gran parte del film vede protagonista un microcosmo famigliare, dove padre e madre sono membri particolarmente zelanti e, di nuovo, apparentemente gioiosi della comunità che “condiziona” vita privata, scuola e svaghi, e in tal senso hanno educato i loro quattro figli, un ragazzo sedicenne, di nome Timo, una ragazza leggermente più grande di nome Hannah e poi due sorelle un po’ più piccole. Dopo un’accurata presentazione delle abitudini e dei riti della famiglia, della scuola e della comunità (si prega, si canta, si balla, si assiste a meetings con predicatori non privi di toni esaltati, stile new age), emergono i due conflitti principali, che per quasi tutto il film vengono gestiti e montati in parallelo: Timo scopre di avere pulsioni omosessuali nei confronti di un coetaneo, la figlia è oggetto di attenzioni da parte di  Max, un ragazzo “normale”, cioè non affiliato alla setta, appena trasferitosi nel quartiere, essendone a sua volta attratta, ma, schiacciata da un Super-io paterno che le impedisce di ammettere a sé stessa tale attrazione, rifugge da lui, salvo brevi momenti di debolezza. Le vicende, in mezzo ad alcune peripezie non prive di ripetitività (comprensive di una sorta di campo estivo di rieducazione, quanto di più simile a un suadente campo di concentramento), prendono due pieghe diametralmente opposte: il ragazzo devastato dalle proprie pulsioni e dal senso di colpa fa una brutta fine, la ragazza invece rientra nei ranghi, non riuscendo a liberarsi dell’educazione coercitiva della famiglia, e soprattutto del padre, con cui stipula nel finale una sorta di promessa pre-matrimoniale, giurandogli fedeltà fin quando non troverà marito, in una scena agghiacciante, come molte di questo film, del resto.

Da quel che si legge, Frauke Lodders, la regista, si è ampiamente documentata sull’argomento, in qualche misura restandone anche affascinata, ha fatto di tutto, sostiene in un’intervista, per evitare qualsiasi forma di caricatura e/o di denuncia, finendo tuttavia, non si capisce se volontariamente o involontariamente, per mettere in primo piano quel che ho chiamato il carattere coercitivo della comunità e soprattutto della famiglia. I figli, di fatto, non sono stati mai posti di fronte a una scelta, sono stati educati così, in un compartimento stagno, e stando al film vengono molto tardi in contatto con l’Altrove. Una dimensione, quest’ultima, ben rappresentata da Max (che risulta alla fine la figura più interessante), un adolescente a sua volta segnato dal lutto e dai traumi ma che ha sviluppato quel po’ di autodeterminazione da rifiutare le false scorciatoie, le false protezioni della setta.


In Good Faith – Regia e sceneggiatura: Frauke Lodders; fotografia: Johannes Louis; montaggio: Elias Ben Engelhardt; interpreti: Mark Waschke (il padre), Karoline Eichhorn (la madre), Flora Li Thiemann (Hannah), Serafin Mishiev (Timo), Michelangelo Fortuzzi (Max); produzione: Kinescope Film, NDR, Arte; origine: Germania 2024; durata: 117 minuti.

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