La prima parte di Kika condensa, in un arco narrativo breve ed efficace, due eventi diametralmente opposti che restituiscono la casualità dell’esistenza nel modo più sobrio e limpido possibile: un incontro fortuito, la nascita di un legame, la morte improvvisa di uno dei due. Il tutto raccontato da una regista che sembra aver quasi trovato una forma nuova di linguaggio, capace di innestarsi sul tracciato della narrazione classica. In realtà non c’è nulla di scardinante nel film di Alexe Poukine, eppure la precisione dei tempi, e soprattutto l’uso delle ellissi, costringe lo spettatore a riempire spazi narrativi che i film, per abitudine, continuano ad illustrare anche quando non ce ne sarebbe più bisogno.
Un esempio concreto può aiutare a chiarire: Kika (Manon Clavel ), già impegnata in una relazione, si innamora di un ragazzo conosciuto per caso — anche lui sentimentalmente legato. Gli episodi scelti per raccontare questo passaggio sono atipici, e proprio per questo perfetti nella loro essenzialità. La rottura con il primo compagno, in particolare, viene illustrata nel modo seguente: lui lava i piatti e le parla di qualcosa di ordinario. Lei non risponde a una sua domanda. Lui si volta, la guarda con un’espressione interrogativa. Stacco. Ellissi. Nella scena successiva vediamo la protagonista che esce dal lavoro, dove la aspetta fuori il nuovo compagno e i due si organizzano per la giornata. Tutto ciò che manca — la fine della relazione precedente, la nascita del nuovo amore, la decisione di condividere la quotidianità — viene lasciato allo spettatore. Sapere quando fermarsi, e come riprendere, per costruire un racconto così netto, così coerente, da colmare con esattezza il vuoto lasciato tra le scene, è un elemento di grande freschezza nel film.
Kika lavora come operatrice sociale, è in difficoltà economica, e, cercando nuovi modi per guadagnare, si affaccia al mondo del BDSM. Scoprirà gradualmente che dolore e umiliazione, lungi dall’essere semplici deviazioni, possono assumere significati più profondi: diventare rituali attraverso cui rivivere un trauma, sciogliere una costrizione, entrare in uno spazio sicuro. Di tutto questo, la ragazza non sapeva nulla. Lo apprende con lentezza. Il disgusto iniziale cede il passo a una curiosità timida, che fa emergere in lei una sensibilità già presente, quasi naturale, vista la sua esperienza nel sociale. Comprende che l’universo del BDSM non è poi (tenendo conto delle dovute riserve) così distante da quello degli assistenti sociali: in entrambi i casi, in fondo, ci si prende cura di persone bisognose, in cerca di comprensione, un contatto, una guida.

Possiamo definire questo film una specie di autobiografia di ciò che avrebbe potuto essere della vita di Alexe Poukine: la regista infatti, per scrivere la storia, ha attinto ad un periodo della sua esistenza in cui si trovava effettivamente a corto di soldi, in ritardo con l’affitto, e con una figlia di cui occuparsi, alla ricerca di qualche mezzo guadagnare soldi più velocemente. “l’unica cosa che potevo ancora vendere era il mio corpo”. Ma sarebbe stata capace di vendere servizi sessuali? E quali? E come si diventa una lavoratrice del sesso? Grazie ai finanziamenti per il suo secondo documentario, Alexe non dovette rispondere a queste domande in termini concreti. “In un certo senso”, dice “Kika è la donna che immagino sarei stata se non fossi diventata regista”.
Con il suo primo lungometraggio di finzione, la Poukine sperimenta ma realizza un film armonioso, senza gli squilibri tipici delle opere prime. Il film pecca di una certa prevedibilità per quanto riguarda le situazioni del sadomaso e cede alla tentazione di ricorrere a semplificazioni romantiche dell’universo BDSM, ma la sua protagonista, interpretata da una notevole Manon Clavel, è un personaggio che incarna una femminilità atipica e sfaccettata. “Considerato il percorso unico di Kika, la protagonista doveva essere abbastanza accattivante da far sì che gli spettatori continuassero a identificarsi con lei, anche quando intraprende un percorso insolito.” Quando Alexe incontra Manon Clavel capisce di avere trovato la persona giusta, anche se in principio aveva immaginato una protagonista meno bella e giovane, decide di scommettere su di lei, intuendone la capacità di assumere le caratteristiche necessarie al personaggio: una certa radiosità, il controllo delle sue emozioni e dell’ambiente circostante, la capacità di accattivarsi la simpatia dello spettatore. E Manon si rivela effettivamente perfetta per il ruolo.
Consigliato.
PS. Se cercate un film che esplora la tematica BDSM in maniera più intima e complessa vi consigliamo, tra i tanti, l’ottimo Dogs Don’t Wear Pants di J-P Valkeapää (2019).
Kika – Regia: Alexe Poukine; fotografia: Colin Lévêque; montaggio: Agnès Brückert; musiche: Pierre Desprats; interpreti: Manon Clavel (Kika), Ethelle Gonzalez Lardued, Makita Samba, Suzanne Elbaz, Anaël Snoek, Thomas Coumans, Kadija Leclere, Bernard Blanca; produzione: Wrong Men, Kidam; origine: Belgio/ Francia, 2025; durata: 110 minuti.
