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Voto
Il mondo fuori è inabitabile a causa dei mutamenti climatici. Le temperature sono altissime, raggiungono i 50°C, il sole brucia la pelle, quindi la gente non esce di giorno, vivono tutti tappati in casa, assetati di ventilatori.
Jacqueine Zünd, al suo debutto da regista, prende di peso e replica, con un’operazione priva di qualsivoglia rielaborazione, tematiche già raccontate con maggiore efficacia illustrativa da altri film, come Alps di Yorgos Lanthimos, per citare solo il più celebre. Ci troviamo in una realtà sociale ove, in aggiunta all’ostilità distopica di cui sopra, le persone vengono “affittate” per interpretare ruoli di defunti o assenti, in una sorta di re-enactment simbolico che possa produrre la catarsi necessaria al committente e permettere così una rappresentazione di esistenza che tenda ad adattarsi a un modello ormai esclusivamente concettuale, un guscio vuoto. I personaggi che abitano tale realtà cercano di riempire tale vuoto pneumatico con un’emotività spenta e meccanica.
Se è vero che la temperatura esterna è salita, quella interiore, emotiva, affettiva, si è abbassata fino al gelo, anche se non è chiaro, in questo caso, come o perché si sia arrivati a tale risultato, e che collegamento ci sia tra i due fenomeni.
Ad ogni modo, facciamo la conoscenza di una madre (Agnese Claisse) che ha deciso di avere una figlia da sola, ma ora che la piccola (Maria Pia Pepe) ha nove anni, sente il bisogno di darle una figura paterna. Per questo, assume un giovane (Levan Gelbakhiani) per interpretare il ruolo di padre. Il ragazzo, però, non si limita a questo incarico e viene ingaggiato anche da altre persone. Tra i vari ruoli che interpreta, ci sono quello di un figlio defunto per una coppia in lutto e quello di “Convitato” per una donna anoressica che lo assume per guardarlo mentre mangia. Entrambi questi episodi risultano così eccellenti nella messa in scena quanto poveri e didascalici nella qualità del discorso concettuale proposto.

Allo stesso modo, gli strani incontri a cui il ragazzo si reca, in cui vengono effettuati degli esercizi piuttosto bizzarri, che consistono nell’abbracciare un’altra persona a seguito di una rincorsa seminudi per poi staccarsi dall’abbraccio e ricominciare il processo. Il significato di tale rituale può trovare tante interpretazioni, ma poche che non facciano pensare, anche in questo caso, a una scopiazzatura di situazioni e di un linguaggio già visti, ma, a nostro parere, non compresi fino in fondo. Lo si sente anche dai rari momenti musicali che cercano un lirismo elegiaco e romantico postmoderno che, più che contrastare o amplificare, depotenzia l’immaginario visivo, composto da esterni bruciati dal sole, ottenuti semplicemente tramite una forte esposizione (ci sarebbe da chiedersi come mai le piante e gli alberi continuino ad essere verdi e rigogliosi nonostante i 50°C).
Il ragazzo, dicevamo, viene noleggiato dalla donna per fare le veci del padre a questa bambina. Come da copione, sono tutti inespressivi, e si comportano da meccanoidi, il che non risulta però sufficiente a produrre la lamina atmosferica che si vorrebbe instaurare: I silenzi assumono sempre più una qualità puramente estetica e si perde la tensione esistenziale. L’attore protagonista, il ballerino Levan Gelbakhiani (And Then we Danced, 2019, di Levan Akin) ha vinto il Pardo per la Migliore interpretazione grazie ad una prova d’attore in cui scruta gli ambienti circostanti per i tre quarti del tempo, con espressioni prive di alcuna connotazione. Non si tratta affatto di una colpa, beninteso, l’attore ha fatto esattamente quello che il suo ruolo richiedeva. Ma dato che l’emotività assente degli interpreti non raggiunge (a nostro avviso) lo scopo a causa di questioni che trascendono la recitazione, premiare un attore per un’interpretazione praticamente non pervenuta, e quindi ingiudicabile, ci pare quantomeno singolare.
Il padre “in affitto” e la bambina sono comunque protagonisti di alcuni dei momenti più riusciti del film, tra i due si instaura una relazione delicata e flebile, mentre vagano attraverso ambienti mercuriali, silenziosi luna park, desolati piazzali. (il film è stato girato a Milano, Genova ed in Brasile) Certe immagini, certe atmosfere, certi momenti sono costruiti in maniera estremamente ispirata, con suggestive inquadrature, lenti ed evocativi movimenti di camera, un profondo intuito nella composizione del quadro, tutte qualità che la regista aveva già messo in luce nei suoi precedenti documentari, (Almost There, 2016; Where We Belong, 2019). La scelta della lingua inglese risulta leggermente posticcia in quanto nessuno dei personaggi sembra parlarlo come lingua madre. Ma non è certo il più serio dei problemi.
Don’t Let the Sun – Regia: Jacqueline Zünd; sceneggiatura: Jacqueline Zünd, Arne Kohlweyer; fotografia: Nikolai von Graevenitz; montaggio: Gion-Reto Killias; musiche: Marcel Vaid; scenografia: Nicole Hoesli; costumi: Sophie Reble; interpreti: Levan Gelbakhiani, Maria Pia Pepe, Agnese Claisse, Karidja Touré, Cecilia Bertozzi; produzione: Lomotion, Casa Delle Visioni, SRF Schweizer Radio und Fernsehen; origine: Svizzera/Italia; durata: 101 minuti.
