-
3
Da anni ormai i palinsesti dei telegiornali del mondo sono occupati da quelle che nella percezione collettiva vengono considerate le guerre più “importanti”: la guerra ucraina e lo spietato attacco israeliano a Gaza. Con tutta evidenza il mondo stabilisce delle gerarchie che finiscono per trascurare guerre ritenute di minor impatto. È questo il caso della guerra in Libano, scaturita dal sostanziale appoggio che gli Hezbollah hanno fornito ad Hamas, a valle dell’infame massacro del 7 ottobre 2023. Ma come sta succedendo con Gaza, anche per quanto riguarda il Libano – seppur in misura minore – la reazione israeliana non è stata commisurata all’attacco (e soprattutto all’appoggio) libanese. Queste le premesse da cui parte il film di Abbas Fahdel (1959), documentarista – ma non solo: anche autore di (pochi) film di finzione, romanziere e poeta – fra i più celebri provenienti dal Medio Oriente.
Fahdel ha una storia molto particolare alle spalle. Nasce in Iraq, ma va a Parigi a studiare cinema alla Sorbona, frequentando i corsi di registi e critici di livello straordinario come Eric Rohmer, Serge Daney e Jean Rouch. Dopodiché all’inizio degli anni Duemila, come se volesse mettere a disposizione le conoscenze acquisita al servizio di una causa intimamente legata alla sua origine, comincia a girare film, in larga parte documentari, che hanno l’ambizione di testimoniare quanto sta accadendo o quanto è accaduto in una delle zone più martoriate della terra. Dopo essersi concentrato sul proprio paese d’origine, l’Iraq, con film che hanno ottenuto una importante distribuzione, persino su Netflix, Fahdel ha deciso di rivolgersi a un altro paese a più riprese distrutto della guerra, ovvero il Libano e di raccontare l’ennesima guerra di quel paese, lo aveva già fatto peraltro con il precedente film Tales of the Purple House, selezionato anch’esso per il Festival di Locarno nel 2022 e di cui abbiamo brevemente scritto. Giova sempre e comunque ribadire che parlare di guerra in Libano significa “scegliere” di quale guerra parlare; anche solo guardando Wikipedia si scopre o si riscopre che di guerre in Libano ce ne sono state dal 1958 in avanti ben 11.
Come si diceva all’inizio, Fahdel decide di concentrarsi sull’ultima, in particolare sui bombardamenti israeliani, sulla fuga dal villaggio verso Nord, in direzione di Beirut e poi sul ritorno, alla ricerca, nella speranza di una possibile ricostruzione. Per porre in atto questo progetto il regista compie delle scelte estremamente rigorose, sia sul piano della produzione che su quello più squisitamente “narrativo”. Decide innanzitutto di fare tutto da solo, gira il film senza produttori, senza équipe, risultando responsabile si può dire di tutto, ricorre a una mdp di estrema accessibilità e all’ I-Phone, l’unico “lusso” che si è permesso è quello di fare uso di droni (quegli stessi droni con cui il paese è stato bombardato, e lo è tuttora) per raccontare alcune scene filmabili, per discrezione, solo così, per esempio cortei funebri, che altrimenti, filmati da vicino, avrebbero rischiato di indurre alla compassione, al pianto, alla pietà. L’uso dei droni quindi come scelta di allontanamento etico e risultato di una scelta che non ha nessuna pretesa di natura estetica. In questa stessa direzione si muove un’altra scelta molto connotata: mai filmare la morte dei soggetti, siano essi uomini o animali (a cui nel presente film viene dedicata una grande attenzione e se vogliamo anche la più intensa pietà, perché di fatto impossibilitati a fuggire).
La realtà- guerra, fuga, ritorno – viene narrata dallo sguardo più stupefatto che atterrito di una bambina, che è la piccola figlia dell’autore, nonché dagli occhi di sua madre, la moglie del regista Nour Ballouk, che figura anche produttrice del film. Servirsi di attori avrebbe, di nuovo, significato falsificare l’autenticità e l’afflato profondamente etico di questo documentario, frutto di un coinvolgimento e di un’emozione che il regista cerca per quanto possibile di occultare, di nascondere di raffreddare, grazie all’utilizzo del mezzo cinematografico. E come ha detto in conferenza stampa: la mdp funge in qualche modo anche da protezione nei confronti della paura di restare vittima della guerra.
Vi è un unica concessione, chiamiamola estetica, che Fahdel si è permesso: fra una sequenza e l’altra, diciamo così al posto delle dissolvenze in nero ha inserito delle brevi poesie, degli haiku, di cui è lui stesso autore, pubblicate in prima battuta su Facebook.
Tales of the Wounded Land – Regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio: Abbas Fahdel; produzione: Nour Ballouk Co; origine: Libano, 2025; durata: 120 minuti.
