Festival di Locarno: Essential Truths of the Lake di Lav Diaz (Concorso)

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Lav Diaz è uno di quei pochi, ormai rari  autori, nel senso più esteso e viscerale di questo termine da un punto di vista semantico e poetico, che è riuscito a imprimere  la propria,  personalissima, riconoscibile e abissale visione del mondo, pur mantenendo un contatto lucido e intenso non tanto e non solo con la realtà del suo paese d’origine, le Filippine, quanto con l’essenza scorticata e sperduta delle proprie radici, attraversate, anzi sepolte dalla macerante colata lavica di corrotte strutture di potere, spregiudicate e senza scrupoli nel mostrare la loro muscolare faccia violenta e repressiva.

Essential Truths of the Lake il nuovo capitolo in continuità con il torrenziale fil(m) blanc et noir  che lega tutta la sua opera, presentato in Concorso al Festival  di Locarno, riprende le indagini dell’ispettore Hermes Papauran, protagonista del precedente When the waves are gone e interpretato sempre da John Lloyd Cruz: se in quel caso la crescente e stringente tensione di una caccia all’uomo a  distanza sempre più ravvicinata tra lo scrupoloso e tenace tenente Hermes Papauran e l’anziano e psicopatico ex poliziotto che ne era stato il maestro e poi ne era diventato la nemesi, possedeva, pur nella meditativa dilatazione delle situazioni e nel dipanarsi delle aperture paesaggistiche, una nucleare, focalizzata compattezza,  questa volta la ricerca delle “essenziali verità” evocate nel titolo si sposta su un molteplice piano di spazi e di tempi, con più cornici che entrano l’una dentro l’altra. C’è sempre la presa diretta, divenuta già recentissimo passato, di una comunità devastata nel cuore della sua marginalità dall’ottusa e indiscriminata “guerra alla droga” portata avanti dall’ex presidente Rodrigo Duerte, con una polizia lasciata letteralmente a mano armata a decidere della vita o delle morte di persone appartenenti ai ceti più poveri, e dunque pregiudizialmente colpevoli di essere spacciatori o criminali, senza nessun tutela giuridica o legale (tanto da far avviare un’ inchiesta delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani). E il film si apre proprio con l’inquadratura notturna di un’esecuzione avvenuta, un’oscurità immanente dentro la quale viene scaraventato il febbricitante sottosuolo di un popolo reso inerme e accecato dalla paura, dal caos e dalla rassegnazione. Il controcampo,  nel succedersi di lunghi piani sequenza che sono l’anima e il corpo delle durate e della profondità del cinema di Diaz, è invece l’ariosità di una terrazza dove Papauran, letteralmente alla luce del sole, sostiene la necessità di principi etici e morali nel comportamento delle degenerate forze dell’ordine filippine, con una collega diventata suo superiore che lo invita a fare attenzione a ciò che dice pubblicamente.

Ma non ci si limita ad una didascalica e dicotomica contrapposizione tra la virtù di una coscienza professata e messa in pratica individualmente e la malvagità di un abuso imposto e quasi automatizzato dal sistema. Il mistero su cui indaga Hermes Papauran (il cui nome e grado vengono ripetuti spesso proprio per segnare la tracciabilità di un’identità, laddove si tende a rimuovere e ad eliminare i corpi in maniera anonima) sovrappone le sembianze, gli scenari, le pulsioni e gli immaginari: il caso riguarda infatti la sparizione e forse l’ omicidio della giovane modella e attrice Esmeralda Stuart che, poco prima di scomparire nel nulla,  aveva appassionatamente abbracciato la causa dell’attivismo ambientalista, in particolare la tutela dell’aquila delle Filippine, considerata tra le più rare al mondo. Una questione rimasta insoluta fin dal 2005 e che apre ad una quantità di piste, supposizioni e possibilità destinate a mettere presto in discussione le certezze valoriali di Papauran e a farlo perdere in una spirale ossessiva di frammentazione e schizofrenia. Uno sdoppiamento/identificazione che Diaz inserisce come film nel film, nel making of tra passato e presente di un documentario che una regista stava realizzando sul personaggio di Esmeralda, interessata a fare della sua storia il paradigma dello sfruttamento e della violenza del patriarcato filippino contro le donne che si espongono (con uno slittamento di senso nel caso di Esmeralda, da ragazza immagine dell’industria dello spettacolo a incarnato simbolo antropomorfico, con tanto di costume da Aquila indossato come una seconda pelle, di una battaglia invisa ai governanti e agli speculatori).

Trascendendo e trasfigurando qualsiasi forma di comprensione analitica o documentale, Hermes si lascia progressivamente diventare Esmeralda, il suo sentire fino a dentro le ossa il liberatorio, generativo, ancestrale spirito animalesco (c’è una digressiva sequenza onirica, anche questa notturna, tra Hermes e il figlio che trasborda e ci conduce nel minato campo ottico del perturbante e del  visionario). Un processo in cui le immagini del documentario su Esmeralda si trasformano nella memoria emotiva di Hermes e nella capacità immaginifica e proiettiva che ne scaturisce; ma tutto ciò non rimane a livello di un’ allucinazione o di un  sogno, ma si esprime nella necessità e nella volontà di proseguirne una scelta di vita, l’adesione quasi maniacale ad un modello antagonista e alternativo. Spogliato ufficialmente dalla sua funzione di poliziotto, Hermes  immerge  se stesso e la prospettiva di quella sua iniziale, ideologica domanda di verità nell’ imponderabile e talvolta catastrofica forza degli elementi naturali, senza ricavarne risposte e soluzioni, ma semmai uno sguardo sempre più sgomento e dolente. Il paesaggio è dunque il riflesso chiaroscurale di questo sentimento, il placido presagio in forma liquida o vaporosa (l’acqua, le nuvole) di una morte obliata e alla quale è negato persino il diritto di un riconoscimento e di una sepoltura (quella visione del lago nel quale potrebbe essere stato gettato il corpo senza vita di Esmeralda fa un po’ pensare a La memoria dell’acqua, mirabile  documentario politico e poetico in cui Patricio Guzman scandagliava le superficie e i fondali marini, in quel caso del Cile, come silenziosi e tombali loculi delle vittime di Pinochet). La ciclicità e la ritualità del rapporto dell’uomo con la natura sono così interrotte da un altro genocidio, fatto precipitare in maniera eterodiretta dalla maestà autoproclamata di uno Stato gerarchico; e questo repentino, traumatico cambio di linguaggio è tradotto da Diaz da feconda dialettica ad attonita contemplazione del paesaggio vissuto e ascoltato come terzo occhio rivelatore, ma accecato dalla hybris tutta umana del possesso e della  prevaricazione.

Una terra che, seppure scavata, non riesce a restituire più  nessuno dei corpi che vi sono stati sepolti (davvero potente e suggestiva la reiterata immagine delle vanghe che sollevano la cenere e il fango causati da un’eruzione vulcanica). In particolare, i corpi femminili dei quali il ritratto amaro di Esmeralda diventa anche il toccante omaggio di Diaz ad un altro illustre maestro del cinema filippino, Lino Brocka (precocemente scomparso nel 1991)  e alle sue combattive e vibranti eroine piene di dignità e desiderose di riscatto (Bona e Il peso del mondo sulle mie spalle, solo per citare due titoli), in una società cosi esplicitamente e brutalmente maschilista. E la disponibilità da parte di Hermes a contattare ed ad accogliere la propria parte femminile lo rende in questo senso una figura illuminante e rivoluzionaria.

L’intuizione di una visione chiara, anche se ancora non completamente intellegibile, quando le nuvole se ne sono andate.


Essential Truths of the LakeRegia e sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz e Larry Manda; montaggio: Lavignes Diaz; interpreti: John Lloyd Cruz, Hazel Orencio, Shaina Magdayao, Bart Guingona, Agot Isidro,Tart Carlos, Paul Jake Paule; produzione: Marta Alves, Stefano Centini, Bradley Liew, Joaquim Sapinho, Jean-Christophe Simon; origine: Filippine/ Francia/Portogallo/ Singapore/Italia/, Svizzera/UK, 2023; durata: 215 minuti.

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