Festival di Venezia (27 agosto-6 settembre 2005): Il quieto vivere di Gianluca Matarrese (Giornate degli Autori – Eventi speciali)

Come in una tragedia greca o in una commedia  latina, anzi in una sorta dii ibridazione di queste due forme archetipiche di teatro, Il quieto vivere, il nuovo film  di Gianluca Matarrese, espone i minimi termini di un conflitto familiare con al centro due donne  dai caratteri polarizzati: Luisa e Imma, l’una cognata dell’altra, non riescono a conciliare i lori modi di stare al mondo sotto l’esposizione da anfiteatro di un borgo calabrese. La prima è irosa, aggressiva, moralista verso gli altri e indulgente con se stessa, votata ad un riottoso vittimismo e al riconoscimento di un qualsivoglia torto da parte del prossimo suo; la seconda è più luminosa, vitale, disposta a dialogare con l’altra donna, che stigmatizza però, parlandone con i figli e con gli altri abitanti del circondario, come una che ha qualcosa non va, forte del sostegno del marito, il fratello di Luisa, e del resto della sua famiglia acquisita. Ma al contrario di un’opera di Sofocle o di Plauto, non c’è una risoluzione in un senso o nell’altro per questa storia, nessuna ineluttabilità da oracolo delfico o deus ex machina calato dall’alto di un’istanza narrativa a sciogliere il nodo del conflitto. Matarrese viene dal documentario, anche se nelle sue opere precedenti c’era già la forte contaminazione di un lavoro di messa in scena e di rappresentazione della realtà, in particolare nell’intenso e tenero La dernière séance, presentato alla Settimana della Critica a Venezia nel 2021, dove peraltro filmava con estrema empatia e delicatezza la vita del suo maturo amante master fuori dal contesto della loro interazione sadomasochista. E questa impostazione che potremmo definire come una forma d ’osservazione a contatto,  una vicinanza discreta e  incisiva al tempo stesso nei confronti di un intreccio che comprendiamo derivare anche in questo caso da avvenimenti realmente accaduti, e rielaborati con un senso drammaturgico del ritmo e della recitazione, viene mantenuta e declinata in una chiave più finzionale; questo permette altresì di amplificare il movimento di accesso e di distanza, di coinvolgimento e di messa in discussione dei comportamenti e dei sentimenti portati in scena dalle due donne, con una graduale digressione verso il comico, l’assurdo, quasi il grottesco.

Il tono, seppur ben calibrato e riportato continuamente ad una dimensione realista e fruibile su un piano immediato di immaginario legato al sud Italia (quei continui dettagli su tavole imbandite di cibo e di generazioni femminili intente a parlare davanti all’altare pagano della cucina), ha dei soprassalti ai confini dell’astratto e del simbolico. Tant’è che la Calabria, la sua terra e la sua lingua, è presente e contestualizzata, ma il palcoscenico dell’agone è la casa su due piani ceduta per essere abitata in parti uguali dal padre di Luisa e del marito di Imma a entrambi i figli, generando l’originario conflitto di interessi e di opportunità .Uno spazio di contesa e di divisione che viene scomposto e soprapposto, fino a confondersi, in pranzi e cenoni festivi con le rispettive parentele incrociate che cortocircuitano, nella vita cosi come nella loro versione filmica, fino a esplicitare le motivazione profonde dello scontro. Non si tratta tanto di imporre la propria volontà o “legge” ( Luisa non accetta che Imma, oltretutto ritenuta da lei una “scostumata” per il suo modo di vestirsi e i suoi atteggiamenti seduttivi, venga a comandare in quella che ritiene essere casa sua) ma della necessità di occupare il proprio spazio  e di  far ascoltare la propria parola tra le maglie stringenti e soffocanti  di una comunità che osserva, ascolta, partecipa e prende parte. Le anziane e gli anziani del paesano vicinato equivalgono, nella progressione dell’arco narrativo, alla funzione del coro greco che rimane in una posizione di imparzialità tra le parti contendenti, sottolinea le contraddizioni, anticipa le possibili conseguenze, è il contenitore di tutte le ragioni e di tutti i torti. Si tratta di un elemento più interessante del semplice chiacchiericcio tra palazzo e palazzo, c’è in sottofondo il sentore di una saggezza che pone domande prima di offrire risposte e che trasforma il ciarlare condominiale in sdegno prima e in reale questione comunitaria poi.

Quello che a tratti potrebbe sembrare uno sguardo quasi irridente ed ironico del cineasta, nato in provincia di Torino, ma con genitori calabro-pugliesi, verso i suoi personaggi si trasforma durante la visione nel suo contrario: lo studio dolceamaro di una solitudine, quella di Luisa, in rapporto con l’entusiasmo crescente di Imma, al quale è concessa anche una sorta di danza erotica e tribale davanti al fuoco (o forse incubo sessuofobo della livorosa cognata su di lei). E la specularità sta pure nella dimensione lavorativa: promozioni social e live di improbabili prodotti dimagranti o aspirapolveri dai lunghi cavi elettrici per Luisa ( che ne accentuano ancora di più il carattere scostante e isolato), attività di soccorso e di assistenza per Imma, che invece ne mettono in luce l’altruismo ed il calore. Lungi dal giudicare però, Matarrese le segue lungo i fili di un’esistenza che rimane intrecciata visto che nessuna delle due sembra voler abbandonare il campo di battaglia, in un procedere  che dalla parola(ccia) pronunciata con ancora più effetto nello stretto accento calabrese sottotitolato giunge al silenzio senza resa e senza vittoria di Luisa. Si arriva al dunque di una spirale di azioni/reazioni, incluse denunce sporte ai carabinieri locali che, come nella commedia dell’arte o in un film di Bunuel sono pure i commensali di una delle cene, e di circostanze non contemplate in cui la sopportazione per le totali assenze ad una tavola ancora una volta apparecchiata a festa è possibile solo grazie al fingere, al fuggire, all’ obliarsi secondo la pratica dell’ (auto) rappresentazione. (Non) vedersi attraverso il filtro di uno schermo per non vedere quello che succede guardando dentro la finestra di fronte oppure ascoltando i rumori provenienti dal piano di sopra. Se lo spessore di questo mood, soprattutto nella parte finale, alza il tiro di uno svolgimento fino a quel momento più calibrato sulla commedia di costume, il merito è anche delle due interpreti che, chissà fino a che punto recitano se stesse, si danno anima e corpo a una doppia danza da ultimo dell’anno in rispettive tristezza e gioia, spontaneità e pantomima. Come se danzassero insieme sulla stessa partitura di una celebrazione e di una cerimonia segreta con in sottofondo la colonna sonora dei fuochi d’artificio, nella presa diretta di una condivisione con altri corpi familiari e amicali, cosi come nella differita di un solitario guardarsi.

Con un pensiero stupendo che passa per la mente: se Luisa incontrasse lo struggente Bertrand de La dernière séance troverebbe forse la forza di sciogliersi in un pianto e in un abbraccio (?).


Il quieto vivere  – Regia: Gianluca Matarrese; sceneggiatura: Gianluca Matarrese, Nico Morabito; fotografia: Kevin Brunet; montaggio: Jacopo Quadri; musica: Cantautoma; interpreti: Maria Luisa Magno, Immacolata Capalbo, Carmela Magno, Concetta Magno, Filomena Magno, Sergio Biagio Turano; produzione: Faber Produzioni, Stemal Entertainment con Rai Cinema, co-produzione Elefant Fims con RSI; origine: Italia, Svizzera 2025; durata: 87 minuti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *