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Voto
Dentro Amir. Non si tratta solo della traduzione del titolo originale, Daroon-e Amir, del film diretto dall’iraniano Amir Azizi. Questa espressione che offre immediatamente una chiave d’accesso al mood immersivo del racconto, ne restituisce anche la profondità e la ricchezza di sfumature, mezzi toni, umori e sensazioni che attraversano il suo apparentemente imperturbabile protagonista. Non bisogna infatti fermarsi alla superficie delle cose: la vita di Amir, che fa il postino in un sobborgo della media borghesia di Teheran, procede nel quieto dinamismo di una traversata in bicicletta, in cui la funzionalità del veicolo per effettuare le consegne ha un valore del tutto secondario rispetto al movimento mnemonico ed emotivo che attiva nel ragazzo. L’atteggiamento silenzioso e sfuggente trova un paradossale radicamento nel suo continuo spostarsi per falcate che sembrano rasentare oppure anticipare il passaggio delle macchine; un gettarsi nel flusso delle cose che parla anche dell’inquietudine di Amir: fortemente legato a Tara, la ragazza conosciuta nella passione per il ciclismo e per l’escursionismo in bici, sta per partire per raggiungerla in Italia, con la promessa di tornare un giorno, forse, insieme in Iran. Si tratta di una scelta che comporta il lasciarsi dietro una vita apparentemente tranquilla e felice, fatta di cene, scambi confidenziali e culturali, partite a carte, e ancora lunghi attraversamenti della città in lungo e in largo con le biciclette assieme agli amici più cari. Abitudini mostrate nella loro ciclicità, senza picchi o abissi, e che proprio per questo rendono maggiormente densa la rete di legami, di azioni, di gesti eseguiti nella composizione di una calda, familiare quotidianità.

Eppure Azizi, che ha anche scritto la sottile ed evocativa sceneggiatura, esprime simultaneamente anche la dimensione ai confini dell’alienante di una routine che sembra essere senza via d’uscita, come una strada che gira intorno a se stessa e riconduce allo stesso punto di partenza, ormai confuso, sovrapposto, perduto tra altri approdi e altre partenze. Lo stesso attaccamento di Amir all’atto del pedalare sembra non solo gesto liberatorio e vitale da uno stato di atarassia emotiva, ma pure ossessivo e reiterato agito per omettere le tracce di un lancinante senso di colpa, stampato dentro la spalancata fissità dei suoi occhi. Il nodo del quale si avrà, neanche a metà film, uno scioglimento drammaturgico. Il confine tra la presa in carico della propria esistenza e la sua dismissione psicotica in nome di un continuo girare a vuoto è dunque molto ravvicinato e marca il territorio della percezione dall’interno di quello che succede a questo ragazzo, il cui fuori ne diventa un prolungamento, l’estensione di un limite o i ripiegamento di una possibilità. L’importanza dell’ambiente circostante, che sia lo spazio urbano molto occidentalizzato della metropoli o l’incontaminato paesaggio naturale delle montagne e dei boschi iraniani, è altrettanto determinante nella ricerca e nella costruzione di un’identità che però non viene più trovata nella solidità di un ruolo e nella purezza di una definizione. Anche il “perimetro” interno di cui parla l’amico scrittore e filosofo di Amir, attraverso cui proteggersi dal sentore disintegrante della fine/morte, del rifiuto sentimentale e del fallimento professionale, è una linea da travalicare come la cima di una collina o da oltrepassare come il fondo un tunnel. Per questo le immagini acquisiscono gradualmente una qualità aerea, volatile, in dissolvenza dentro una luminosità sempre accesa, contro l’inziale tonalità più opaca, e mettono al centro della scena il corpo flaneur di Amir, segnato dagli impulsi del desiderio e dai raffreddamenti delle contraddizioni. L’ondulazione di una simile complessità sottotraccia appare la sintesi tra l’auto ed etero sguardo che destruttura l’Io fino a farne un work ancora in progress di Michelangelo Antonioni e la precisazione di senso profondamente leggera e puntale attuata dalla parola (dialogata, scritta, ricordata) nel cinema di Eric Rohmer. A quest’ultimo più che altro, Azizi si avvicina nel voler filmare la stagionalità di un sentimento amoroso tenuto insieme dai fili di una promessa, messo alla prova dalla distanza temporale e spaziale e, più di tutti, dalla suddetta perdita di un senso che è la prima causa di disagio e di frustrazione per una persona che sceglie di emigrare nella frattura di un andirivieni.
Ed è proprio Tara, durante una delle videochiamate, a confessare ad Amir la difficoltà di trovare il cambiamento tanto auspicato e promesso al momento della partenza, quasi a farsi carico dei dubbi e delle indecisioni del suo giovane compagno circondato dal crescente vuoto metafisico di una casa e di un mondo che sta per lasciare. È come se il catulliano verso né con te né senza di te, tanto caro in primis a Francois Truffaut, venisse ampliato dalla sua accezione esclusivamente romantica per andare a toccare ogni aspetto della vita, inclusa l’appartenenza a una terra, ad una cultura, ad una lingua; non a caso uno dei personaggi è sordo e la mediazione per capire quello che dice e quello ascolta incarna simbolicamente lo slittamento semantico di questo sradicamento. L’indecisione del protagonista mantiene allora il duplice canale di un tutto e di un nulla. Tante cose e nessuna cosa possono essere sufficienti come motivazione per restare o per andare. Anche se la connessione amorosa con Tara, che appare pure nella fantasmatica rievocazione del primo incontro e dei giorni felici a Teheran prima della separazione, è la spinta a trovare una destinazione, seppur non finale, per dare la spinta propulsiva al viaggio. Peraltro la Tara con la quale parla attraverso le videochiamate non viene mai fatta vedere, se non di sfuggita, dentro lo schermo dello smartphone. Amir ha prima la necessità di riconciliarsi con ciò che è stato, con il trauma di quell’addio subito e con la prospettiva di un ritrovarsi nonostante tutto il resto. Tara non può esserci visivamente nel presente sospeso e precario del cambiamento, ma ritorna sotto forma di ricordo nel prologo che ha stabilito il patto e le condizioni della coppia. Non viene esplicitato, intelligentemente, quanto il vincolo di riconoscenza che li unisce abbia un peso specifico sulla scelta di Amir, rispetto ad una passione che non si avverte mai come tesa e vibrante, ma idealizzata e disincarnata nella virtù del fare la cosa giusta (come gli suggerisce lo zio “peccatore” e poi pentito di aver tradito la fiducia e le aspettative della moglie).

Non c’è però l’imposizione di un forzato moralismo fatalista, e la consapevolezza snebbiante di Amir passa sempre e comunque per la materializzazione di un’immagine: la sequenza durante la quale una ragazza, alla quale ha consegnato una lettera contenente una buona notizia, esegue per lui l’aria romantica di un’opera in italiano. In una ripresa laterale in primo piano c’è lei, mentre sullo sfondo Amir è filmato sfocato dentro uno specchio. Quando l’esecuzione del brano finisce, l’immagine di Amir torna a fuoco, invertendo la focale con la ragazza. Il passaggio è chiaro nella sua nuclearità: è l’amore che gli ha permesso di centrarsi, di vedersi e di essere visto.
Da quel momento in poi è facile intuire che non ci sarà più solo il monocorde colore di uno stato d’animo, ma la varietà di un racconto d’inverno, di primavera, d’estata e d’autunno.
Daroon-e Amir (tit. int.: Inside Amir) – Regia e sceneggiatura: Amir Azizi; fotografia: Ali Ehsani; montaggio: Amir Azizi; musica: Delaram Kamareh; interpreti: Amirhossein Hosseini, Nader Pourmahin, Hadis Nazari, Narimar Farrokhi, Pirouz Nemati, Sohrab Mahdavi; produzione: Fog Films; origine: Iran, 2025; durata: 103 minuti.
