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“Leggete libri! Leggete poesie! Non Tik Tok, ma libri veri, romanzi… Se volete fare cinema dovete, prima di tutto, leggere.” L’inconfondibile voce leggermente afona del regista bavarese più famoso d’America è appassionata. Quasi perentoria. Durante la Master Class che si è tenuta a Venezia nel nuovo spazio Match Point Arena, 300 posti e aria condizionata glaciale, Herzog rivela di leggere molto più di quanto vada al cinema: “Guardo forse quattro o cinque film all’anno, ma leggo moltissimo.”
Fuori concorso a Venezia con il documentario Ghost Elephants – e al contempo premiato con un Leone d’Oro alla Carriera – Herzog ama un uso efficiente del proprio tempo. Dopo una breve introduzione, la platea piena di giovani, molti di loro aspiranti registi, ha la possibilità di fare domande al maestro. Due microfoni ad asta sono stati posizionati su due lati di fronte al palco. “Chi di voi è coraggioso può venire qui e pormi la prima domanda. Mettetevi in fila e risponderò a tutti. Non perdiamo tempo a passare microfoni in giro per la sala.” I ragazzi pendono dalle sue labbra. Il primo che se la sente è un ventitreenne che vorrebbe sapere se Herzog ha una qualche routine, una giornata tipo. Evidentemente no. La routine vera e propria non esiste per uno dei registi-avventurieri più atletici e instancabili della sua generazione, ma confessa che quando è a casa ama moltissimo i suoi due gatti.
“Mi danno conforto. Quando sto male mi si accoccolano sul petto e questo mi fa stare meglio. Anche se quando li guardo non ho idea di cosa passi loro per la testa.”
E cosa c’entra questo con il suo nuovo documentario africano? La fascinazione per gli animali è un tema che ricorre nel cinema di Herzog, uno per tutti lo straordinario e spietato Grizzly Man (2005), in cui il regista aveva dichiarato la sua visione ben poco romanticizzata della natura, per lui nient’altro che un indifferente avvicendarsi di “caos, conflitto e morte”.
Nel caso di Ghost Elephants, invece, il registro scelto è quello onirico: un altro cavallo di battaglia herzogiano. “Nel film non mostro gli elefanti, mostro il sogno degli elefanti”, racconta al pubblico nella Match Point Arena. Ecco: un’esplorazione su cosa può voler dire “sognare gli elefanti”, inseguirli invano, immaginarli. Forse si può intercettare qui un’assonanza con l’interrogativo su cosa passi per la testa ai gatti domestici di Herzog quando gli fanno le fusa sul petto.
Il biologo e ricercatore Dr. Steve Boyes, da dieci anni alla ricerca dell’elefante più grande mai esistito sul pianeta, è la guida scelta da Herzog per l’impresa di catturare l’immagine dell’elefante che non c’è. L’antenato di questo gigante-fantasma è un calco di gesso alto circa quattro metri montato su un’imponente impalcatura, ricoperto da circa due tonnellate di pelle vera e conservato nello Smithsonian Museum a Washington D.C. È noto come Fénykövi Elephant, dal nome del cacciatore ungherese che lo uccise durante una spedizione in Angola nel 1955, ma è anche chiamato più affettuosamente con il suo soprannome: Henry.

Steve Boyes è sicuro che la stirpe di Henry non sia estinta, anche se ogni tanto la sua convinzione vacilla: forse non è altro che un sogno, si interroga Boyes, forse siamo alla ricerca di un mito che non esiste, come Moby Dick. Una delle questioni che attanaglia il biologo, e che certamente ha affascinato Herzog, è proprio questa: non sarebbe meglio non trovarli mai? Una delle sequenze più belle del film, la ripresa sott’acqua di un gruppo di elefanti, di misura normale, assomiglia a una danza fantastica in cui non si vede nemmeno per un attimo il cielo soprastante. La musica di Ernst Reijseger con il supporto dei suggestivi canti a tenore sardi – a volte, bisogna dirlo, un po’ troppo insistente e onnipresente – trasporta le immagini dei paesaggi africani in una dimensione quasi spirituale e sovraumana. A Herzog notoriamente piace usare superlativi e iperboli e anche in questo caso le mezze misure non fanno parte del suo vocabolario.
Sia il cinema che il lavoro dei biologi naturalisti sono faccende difficili da affrontare in totale solitudine. La squadra è essenziale: quando, ad esempio, per andare a cercare gli elefanti fantasma nelle aree più remote dell’immenso delta del fiume Okawango in Angola diventa necessario valicare fiumi con motociclette in spalla; o quando si devono leggere le tracce lasciate dagli elefanti sul terreno e sulle cortecce degli alberi. Il viaggio non avrebbe senso senza l’aiuto dei custodi del territorio, i boscimani del Kalahari in Namibia che accettano di unirsi alla spedizione in Angola. Herzog tiene molto a non vederli come “altro” da noi: “Loro sono noi, sono coloro dai quali discendiamo tutti”, sottolinea durante la conferenza stampa. L’imitazione dei movimenti degli animali, che siano elefanti o antilopi, fa parte della loro tradizione: la sequenza del minuto boscimano che mima le movenze di un elefante è magnetica e racconta il dialogo non interrotto fra questi popoli e il loro ambiente.
L’anziano, forse centenario, musicista che ripara il suo strumento a corde cantando una nenia con lo sguardo lontano è circondato da galline e vive in una dimensione tutta sua. Questa è una di quelle immagini che restano in mente mentre, con un filo di ironia, la voce di Herzog fuori campo commenta: “C’è forse qualcosa di meglio di questo?”
Ghost Elephants: – Regia e sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Eric Averdung, Rafael Leyva; montaggio: Marco Capalbo, Johann Vorster; musica: Ernst Reijseger; interpreti: Steve Boyes; produzione: The Roots Production, Service (Ariel Leon Isacovitch), Skellig Rock (Werner Herzog), Sobey Road Entertainment (Brian Nugent); origine: USA; durata: 99 minuti.
