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Voto
A volte è necessario invertire la direzione per poter raccontare delle storie che ci appaiono come vicine, familiari, verso le quali è possibile provare una forma di empatia e di simpatia, ma che al tempo stesso contengono qualcosa di disturbante, anomalo, non riconoscibile e che quindi va “normalizzato” ed edulcorato, portato verso il rassicurante orizzonte di una spiegazione, di una retorica, dell’appiattimento di chiaroscuri e contraddizioni. Stefano Romani, un operatore sociale che collabora con i centri diurni organizzando laboratori teatrali con persone affette da disturbi psichici e disabilità psicomotorie, cerca di sfilare queste donne e a questi uomini dall’interpretazione che viene loro applicata dalla società che si muove intorno, ma che rimane esterna, tangenziale, quando non proprio assente e indifferente alla condizione di un disagio e di una vitalità, di una sofferenza e di una gioia. Antonio Morabito ne filma l’esperienza e il posizionamento dell’interno, e ne riproduce la dinamica di un movimento: Indietro così!, è proprio l’invito a non cedere retrocedendo, il nome informale della compagnia in progress, il campo d’azione e di confronto necessario che Stefano propone ai suoi attori/utenti, mai trattati affettatamente secondo il linguaggio funzionale del rapporto tra assistente ed assistiti, o quello aulico di chi idealizza e liricizza l’handicap.
L’atteggiamento di Stefano, e lo sguardo di Morabito sono in medias res di quello che succede ad ogni incontro focalizzato alla costruzione di uno spettacolo che, per la prima volta dopo tanti esperimenti e tante rappresentazioni, dovrebbe debuttare nello spazio di un importante palcoscenico romano, il Teatro Vascello. Questa informazione non è però determinante nel lavoro quotidiano di questo collettivo apparentemente dal legame cosi esile ed eterogeneo anche nella formazione delle patologia (dalla sindrome di Down a diagnosi di schizofrenia); ciò a cui assistiamo, in un progredire che non pretende però di essere esaurito dentro l’arco di un racconto( Il climax che dovrebbe essere rappresentato dal debutto al Valle è ridotto al minimo), è l’instaurarsi, in un mix di spontaneità e metodologia secondo il personalissimo stile di conduzione di Romani, di un legame e di una fiducia sempre più intensi, vasti, coinvolgenti. E partendo da un’ indietreggiare che non è solo la sgomenta reazione alla constatazione spaziale e caotica di una mancanza di senso, come si vede esplicitamente nella sequenza di un frammento delle prove; Il lavoro ruota intorno alla memoria del ricordo declinato secondo la varietà delle emozioni: struggente e tenero nel ritrovare le parole e i gesti d’affetto verso il proprio padre, rabbioso e liberatorio contro l’approssimazione e la superficialità degli psicologi, indignato e doloroso nel rievocare il trauma di un abuso.

Non si tratta di creare uno spazio per uno sfogatoio o una confessione tesa a produrre un effetto drammatico o un qualche artificio da portare in scena. Lo scopo di Stefano non è questo e la regia di Morabito lo capisce e lo inserisce all’interno di un processo di elaborazione. Lo strumento basico della sedia vuota, sulla quale ciascuno dei partecipanti proietta la figura di chi ha amato o di chi ha odiato, è il passaggio per accedere a quel mondo teatrale di ombre, di movimento, di graduale definizione del proprio corpo e della propria voce come elementi scenici, di una rappresentazione appunto. Stefano, il cui punto di vista è presente praticamente in ogni inquadratura, si muove in maniera orizzontale e paritaria tra la dimensione umana e la vena artistica e creativa di questi interpreti sorprendenti e spiazzanti ( c’ è perfino chi sa a memoria alcuni passi del Romeo e Giulietta di Shakespeare), e questo essere cosi immerso e attraversato, senza quasi neanche il distanziamento di un equipe più istituzionale e strutturata nonostante la dialettica e lo scambio con degli importanti e decisivi collaboratori ( soprattutto nella traduzione teatrale della parte laboratoriale) viene messo in evidenza da Morabito che, proprio in una logica di contrasti e di dicotomie autenticamente esposte e non programmaticamente risolte, coglie interrogativi e dubbi. Ed è proprio una collega con più esperienza a confrontare Romani sul senso ( quello che manca e davanti alla cui assenza è meglio indietreggiare…) del suo operato, su quanto, rispetto ad una certa reticenza e resistenza ad uscire fuori dalla propria zona di confort, non influisca il contrappeso delle fragilità di una vita della quale, intelligentemente, non viene fatto fare un resoconto autobiografico, ma se ne sente solo il riverbero egotico di paure e rigidità. Cosi il discorso si sposta su una riflessione ancora più sottile del rapporto tra l’io e il noi, il singolo e la comunità, il cercare di mettere insieme l’espressione di una propria personale necessità di rassicurazione e di vicinanza affettiva con il farsi portavoce di istanze e di bisogni da parte di soggetti ai quali è stata spesso negata la risonanza di un palco(scenico).

Un tentativo che trova una sua possibile e non definitiva forma nel far circolare le domande e nel costruire, per il tramite dell’etica e dell’estetica del gruppo, non le risposte, bensì le testimonianze di uno scambio al di là dei ruoli e delle opportunità. Entrare fuori, uscire dentro, l’assunto di Franco Basaglia rispetto al significato della riapertura dei manicomi all’indomani dell’applicazione della Legge 180, può essere dunque parafrasato ancora oggi, parlando della questione del disagio mentale, come non più riferito alle mura carcerarie di un istituto di contenimento. Eppure l’accompagnamento di Stefano, il suo prendere per mano e farsi per mano da Barbara, Cinzia, Daniele. Mario, Marco e Rosaria, tra gli altri, mantiene la sostanza coniata in quell’ossimoro: Il passato non è una terra straniera, ma il nodo obbligato e obliata da sciogliere da dentro per poi trovarsi sulla soglia di un fuori che ha altre sembianze e altre mura, quelle di un teatro. Senza rimuovere la doppia presa su ciò che è stato, ciò che è ciò che potrebbe essere, come canta Franco Battiato in Passacaglia, Leitmotiv extradiegetico che commenta le riprese delle prove: Vorrei tornare indietro, per rivedere il passato, per comprendere meglio quello che abbiamo perduto. Viviamo in un mondo orribile, siamo in cerca di un’esistenza.
Come ombre socratiche in attesa di diventare personaggi in cerca d’autore.
Indietro così! – Regia, sceneggiatura e fotografia: Antonio Morabito; montaggio: Stefano De Santis, Antonio Morabito; musica: Alessandro Sgarito; interpreti: Stefano Romani, Irene Turati, Sandro Bussu, Carla Parsi, Gli operatori e gli utenti del Centro diurno La bottega delle idee-ASL RM2 Progetto laboratori per persone con disabilità, Municipio RM2; produzione: Vertigo Film, Tony Campanozzi; origine: Italia, 2025; durata: 94 minuti.
